#FCAAAL27 – My hindu friend (H. Babenco), Burning birds (S. Pushpakumara)

Il testamento di Hector Babenco e il crudo realismo di Burning birds legano mondi lontani e sentimenti universali. Ultime corrispondenze dal festival di Milano, edizione 2017

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L’ultimo atto di Hector Babenco è segnato da un film che è testamento gioioso e testimonianza di rinascita. My hindu friend, nella sezione Flash, è una lucida riflessione sul valore della vita colto nell’attimo in cui la razionalità spinge a riflettere sulla sua finitezza. E serviva questo film nella filmografia del regista brasiliano non solo per chiudere la carriera, ma per definire, meglio che in altre occasioni, i contorni autoriali del suo cinema, forse perché non del tutto sempre coltivati o forse solo perché sono solo da riscoprire. Il cinema diventa viatico dell’esistenza, linea di confine e aperto campo per l’immaginazione.
Per realizzare questo film profondamente autobiografico, My hindu friendBabenco si affida al volto scavato e dolente di Willem Dafoe, completamente calvo per la chemioterapia che da malato terminale deve seguire. Diego Fairman è un regista famoso malato di un tumore aggressivo. Prima di morire vuole girare il suo ultimo film. L’unica possibilità di salvezza è un trapianto di midollo. Accetta la sfida e il suo donatore è il fratello con cui non ha rapporti da anni. Lo detesta poiché gli imputa la morte del padre. La degenza e le cure sono dolorose, ma l’operazione riesce. La separazione dalla moglie, l’incontro con una attrice che sarà la sua nuova compagna sembrano riaprire le possibilità della vita.
Cinema come speranza e film come illusione, ma racconto come necessità vitale di consegnare il proprio cammino e il proprio passato a qualcuno, testimonianza della fatica della vita e della difficile conciliazione tra la vita e l’arte e l’arte come passaporto per la vita. Willem Dafoe presta il suo volto e la sua lucida follia di attore dotato di un grande carisma a quest’opera definitiva di Babenco.
Babenco racconta la sofferenza, ma non soltanto e ogni sfaccettatura del racconto si carica dell’ironia tagliente, ai limiti del sarcasmo, attribuita al suo personaggio. Diego proclama le sue verità (alla moglie che gli dice Vorrei io essere malata al posto tuo, lui freddo risponde: Non dire cazzate, se fossi io non vorrei essere malato al posto tuo!) poiché non ha più nulla da perdere. Poi la lunga degenza in clinica, il racconto che sembra espandersi oltre la vita, ricercando nelle forme di una consuetudine immutata, la sensibilità del moribondo che dialoga e gioca a scacchi con l’incaricato della morte. Dialoghi divertenti e brillanti, arguti, durante le lunghe partite notturne, tutto frutto di un lucido delirio con cui si scambia il dolore con l’umanità necessaria a superare ogni sofferenza. L’ironico rimando al film di Bergman è poco più di

My hindu friend, FCAAAL27un intarsio, Babenco istituisce un dialogo terreno con la morte, non c’è trascendenza, perché è la morte che si fa umana, con i suoi problemi occupazionali, di stabilità del lavoro e perfino con le incertezze del futuro. L’amicizia con il piccolo indiano, l’hindu del titolo, cominciata per gioco è divenuta tra fantasia e realtà un’amicizia vera che continuerà nel tempo.
Babenco prova a non prendersi sul serio e costruisce un film a volte bizzarro nella sua instabile e altalenante natura. Il cinema si fa dispositivo di esplorazione del tempo che resta alla vita, ma anche di quello che realmente sembra essere accanto a noi in una specie di mondo e di vita parallela. Dafoe è magistrale a mostrare il delirio della malattia e lo spegnersi di ogni speranza, acquietato nella sua rabbia profonda dopo la guarigione, in cui sembra dovere riguardare il se stesso abbrutito dal male. Un film che appartiene tutto ad una sfera profonda della coscienza che resta per questa ragione anche un po’ indecifrabile pur mostrando splendidamente, tutto se stesso, senza remore e senza pudori.
Siamo su altri registri con Burnig birds, nella selezione del Burning birds, Sanjeewa PushpakumaraConcorso dei lungometraggi, del giovane cingalese Sanjeewa Pushpakumara. Il film sembra recitare un lungo e ininterrotto atto di dolore. In un villaggio dell’isola un uomo viene arrestato e si scoprirà che è stato ucciso. È rimasto vittima di un tradimento. La moglie Kusum resta con la suocera e otto figli. Accetta tutti i lavori, anche i più umili e arriva ad accettare anche di prostituirsi per mantenere la famiglia. I pregiudizi e le maldicenze distruggeranno la vita di Kusum e la sua famiglia sarà costretta a fuggire altrove.
Pushpakumara ha girato il film nel suo villaggio e racchiude il mondo nelle sue inquadrature pittoriche avendo riversato nel film la sua giovanile passione per la scoperta della pittura di Caravaggio e di Rembrandt. Una passione che lo spinge ad operare scelte cromatiche dai toni caldi e pastosi con quegli ocra le cui stoffe dei vestiti delle donne sembrano confondersi con le pareti della povera casa.
Siamo stati abituati in questa edizione del Festival a personaggi estremi, piegati sotto il peso di un’esistenza difficile, questo film e Live from Dhaka, appartenenti peraltro alla stessa area geografica, dimostrano per trasposizione, la fatica esistenziale di quei luoghi. Pushpakumara lavora meno per metafora e a differenza di Saad rivolge il suo sguardo direttamente al nucleo familiare, da sempre luogo privilegiato da difendere. Questo non esclude che il film abbia ambizioni e aperture verso una più ampia collettività. Ma non si trasforma Burning birdsmai in metafora. Il giovane autore si serve di uno sguardo diretto, molto europeo, privando il suo cinema di ogni orpello o barocchismo. Il suo realismo va al centro delle cose, scartando ogni altra matrice narrativa da sempre congeniale ai racconti di area indiana. Il suo personaggio principale, la tormentata Kusum, ci porta per mano dentro un piccolo inferno personale, con la sola pretesa di raccontarci la sua storia fatta di soprusi e oppressioni. Sanjeewa Pushpakumara ammanta il suo film di una ricerca di perfezione formale e gusto dell’inquadratura, ma senza mai un cedimento che faccia pensare ad un vuoto formalismo senza contenuto.

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