Léa Seydoux: protocollo fantasma

léa seydoux

Votata a un cinema inevitabilmente fisico, declinato tanto nelle sequenze action di MI4 quanto nelle nudità a cui si è sempre mostrata incline, Léa Seydoux sembra sfidare di continuo la macchina da presa, non sempre in grado di catturare, nell'attimo di un fotogramma, la mutevolezza di un volto indomabile. Un profilo dell'attrice nelle sale con La vita di Adele.

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léa seydouxPiù che il volto nuovo del cinema francese, Léa Seydoux ne è l'Ancien Regime.
Delfina di una delle famiglie che ha materialmente costruito la cinematografia d'Oltralpe, con il bisnonno Nicolas alla Gaumont e il nonno Jérôme alla Pathé, le due più antiche e imponenti case di produzione del Paese, la ventottenne Léa è la reincarnazione, in un corpo giovane e bello, di un potere e di un marchio solido che continuano così ad essere esportati, corteggiati dal cinema d'autore europeo e dalle super produzioni hollywoodiane.

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E se nel Vecchio Continente quei suoi tratti irregolari, con gli occhi un po' infossati, la pelle diafana rivelatrice di un pedigree di razza, rendono Léa adatta per personaggi sfuggenti e complessi, per il cinema americano è il prototipo perfetto della parigina imbronciata e sofisticata, riciclabile tanto come libraia che riporta alla contemporaneità il flaneur Owen Wilson di Midnight in Paris sia come vertice di un platonico triangolo dal sapore Sixties nello spot per il profumo di Prada Candy L'eau firmato da Wes Anderson e Roman Coppola.
 
 

léa seydoux mission impossible protocollo fantasma

Dopo un rapidissimo battesimo tarantiniano in Bastardi senza gloria, dove era una delle figlie del contadino che nascondeva la famiglia di Shoshanna, è in Mission Impossible: Protocollo fantasma che la Seydoux trova il punto di congiunzione tra i ruoli scomodi del cinéma d'auteur e il cliché della francese giocato per Hollywood. Brad Bird ha la giusta intuizione: l'elegante e algida donna europea è una letale killer che il team di Ethan Hunt faticherà non poco ad abbattere, perché i trucchi e le maschere della trilogia invecchiano irrimediabilmente di fronte al nuovo che avanza implacabile.
 
 
Dal futuro al passato: Léa è un oggetto indefinibile anche temporalmente, dotata di una purezza che sembra provenire da epoche remote, come quella della giovane lettrice di Marie Antoinette interpretata in Les adieux à la Reine di Benoit Jacquot, sostenuta da un corpo morbido che la avvicina alle muse dei pittori impressionisti.
Ma anche capace, con un fisico appena più asciutto, di assumere i connotati freddi e taglienti di un cyborg, perfetta donna futuribile com'è appunto la Sabine Moreau di Protocollo fantasma o la stessa Sidonie del film di Jacquot, figura liminare, testimone della caduta del vecchio ordine, giovane corpo borghese per ciò stesso rivoluzionario.
 
la belle personneVotata a un cinema sempre e inevitabilmente fisico, declinato tanto nelle sequenze action di MI4 quanto nelle nudità a cui si è sempre mostrata incline, partendo da La belle personne di Christophe Honoré fino alle chiacchieratissime scene di La vita di Adele, incide sul suo corpo i contrasti netti e violenti di un volto indomabile dalla macchina dalla presa, non sempre in grado di catturarne, nell'attimo di un fotogramma, la mutevolezza continua.
 
Questa specie di negazione all'occhio indiscreto della telecamera si traduce in una sfida per i suoi stessi registi. Che scelgono di assecondarne l'ambiguità, come Honoré, che per tutta la sua trasposizione contemporanea della Princesse de Clèves tiene Junie sotto una campana di vetro, specchio per le ossessioni degli altri personaggi, motore immobile di passioni che sembrano non riguardarla.

L'esordio da protagonista accanto a Louis Garrel è di quelli fulminanti e del resto sedurre leggendo il testo di una canzone dei Ricchi e poveri non è da tutti: grandi ovazioni al Festival di San Sebastian per l'opera ma soprattutto per questa jolie gamine, (bella bambina, come la chiamano nel film…) che diventa nel volgere di pochi anni una delle attrici più note del cinema francese, accanto a Marion Cotillard e Mélanie Laurent.

Anche Jessica Hausner e Ursula Meier sfruttano l'indecifrabile volto di Léa per due ritratti femminili ambigui: nel 2009, a un anno dalla rivelazione de La belle personne, si accontenta di un ruolo piccolo ma incisivo in Lourdes, accanto a Sylvie Testud, paraplegica in cerca di un miracolo, che guarda all'infermiera interpretata da Léa con attrazione e invidia. E lei risponde in maniera egualmente equivoca, ora accudendola amorevolmente ora abbandonandola senza remore per la compagnia maschile.
 
La Hausner inscrive nel corpo della Seydoux, nel contrasto tra un volto sempre inquietante e un corpo pieno e rigoglioso,  lo stesso atteggiamento dell'opera, la sua amara riflessione sulla malattia e la (falsa) speranza della religione.
 
 
Tre anni dopo la svizzera Meier segue l'impronta della collega austriaca: in L'enfant d'en haut, (Sister in italiano), Léa interpreta una outsider, una ragazza scapestrata dall'imponente carica erotica, come già in Plein Sud di Sébastien Lifshitz, incastrata in un rapporto ambivalente di amore/odio con il piccolo Julien.
Ursula Meier si affida all'emotività mai banale o accademica di Léa per smussare l'eccessivo rigore del suo cinema, sempre a rischio di incepparsi sulle prorie tesi. Ed è all'impulsività della Seydoux, al suo modo unico di mischiare una grande tenerezza a una repentina freddezza, che si deve la tenuta emozionale del film. 
 
 
Léa Seydoux Emma ne La vita di AdeleUna sfida alla macchina da presa, dicevamo. Quella di fermare, fissare, catturare i sussulti di una faccia strana e cangiante, che ogni regista deve decidere se assecondare o contrastare.
 
Probabilmente inevitabile allora lo scontro umano con un autore molto 'padrone' del suo materiale, come Abdellatif Kechiche. Che da una parte, per la sua attitudine sensoriale, per un cinema fondato sul tatto e il gusto ancor prima che sulla vista, sembra perfetto per valorizzare l'istintività naturale di Léa. Ma dall'altra è troppo ossessionato dal controllo per lasciare che l'attrice vinca sulla macchina da presa. 
Ciò che è tanto piccolo nella vita – l'infinita scia di polemiche con accuse e repliche tra Kechiche e la Seydoux  – diventa però grande sullo schermo: La vita di Adele è, dal punto di vista filmico, un combattimento erotico sfiancante e appassionato, (come quello delle scene "hard" tra Emma e Adele) tra regista e interpreti, tra cinema e vita, con il primo che tenta di comprimere, imbrigliare e domare la seconda, senza tuttavia riuscirvi del tutto.
Qui Léa trova il suo ruolo finora più completo, più denso. Compiendo un arco di trsformazione che dalla liceale inconsapevole de La belle personne, in grado di agitare passioni che è incapace di gestire, la conduce al personaggio estremo di Emma, la giovane artista borghese dalla chioma blu, che ne decreta la raggiunta maturità d'attrice. 

 

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