Abang Adik, di Jin Ong

Un film di silenzi e abbracci spezzati, dove la metropoli malese si fa punto di (dis)connessione di legami fraterni. Ne emerge un mèlo struggente, delicato e mai sentimentale. Gelso d’Oro al FEFF 25

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È possibile vivere, se non addirittura sopravvivere, in una città che calpesta e rifiuta i suoi stessi cittadini? Sembra essere questo il conflitto principale di Abang Adik, il propulsore che mette in moto i percorsi dei due giovani protagonisti, fino a schiacciarne ogni sogno, idea o emozione. La Kuala Lumpur in cui sono nati e cresciuti è a tutti gli effetti un inferno urbano, fondato su un reticolo di storie, violenze, culture e disparità sociali che condanna chi vive al suo interno ad un’esistenza vuota, e quindi ingiusta. E non è un caso, allora, che ai due fratelli (ma è davvero così?) non resti che navigare sulla superficie di un mondo privo di coordinate. In bilico tra la legalità e l’illecito. Tra l’istinto all’umanità e la disperazione di chi, come loro, respira dal basso quelle lugubri atmosfere.

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Ciò che tiene in vita i due giovani uomini è proprio il legame d’affetto che li lega, per quanto l’uno sembri l’opposto dell’altro. Abang (Kang Ren-wu) è la sintesi di tutto quel che il fratellino acquisito Adik (Jack Tan) avrebbe voluto essere: è uno stacanovista, ha la capacità di superare in silenzio (d’altronde è sordomuto) ogni affronto che la dura vita di quartiere gli pone davanti, e rifiuta sin da subito il facile richiamo della criminalità. Adik al contrario è (almeno in apparenza) il più vulnerabile dei due, condizionato com’è dalla frenesia di una città che obbliga i suoi abitanti a trovare delle vie alternative di sopravvivenza. Lo vediamo infatti trafficare in passaporti falsi, ricevere pagamenti per delle prestazioni sessuali e intrattenere rapporti con la malavita locale. Per lui e il fratello, in quanto privi di documenti ufficiali malgrado siano a tutti gli effetti malesi, contano solo i piccoli atti di resistenza, quei gesti che li salvino dal caos di una metropoli così incapace a controllare e gestire le numerose anime (culturali, etniche, politiche) che la attraversano. In un luogo dove ogni “cittadino” può ritagliarsi il proprio spazio d’azione. Ma in cui nessuno si sente veramente a casa.

In tutta la prima metà di Abang Adik è il rapporto uomo-spazio a dominare l’intreccio. Nulla per i due protagonisti accade al di là del terrificante orizzonte urbano in cui agiscono. Al punto che Jin Ong (qui al suo debutto) mostra una grande lucidità nell’intrecciare traiettorie e vissuti dai riflessi struggenti, proprio perché confluiscono in una realtà che fagocita chiunque cerchi di sfidare o reagire alle sue diaboliche configurazioni. E anche se tentano di fuggire da quei soffocanti perimetri di cemento, di lasciarsi alle spalle le catene di un mondo privo di giustizia o equità, i loro cammini sembrano comunque destinati al collasso. Ma più aumentano le difficoltà, maggiore è il livello di intimità a cui giungono i due fratelli. Ed è in questo spazio interno, personale, lontano dalle turbolenze della realtà esterna, che il film prospera. Fino a tormentarci con una visione di fratellanza che abbatte ogni difesa. Tanto per i protagonisti, quanto per chi guarda.

Dove Abang Adik eccelle non è solo nella coerenza con cui ci presenta un rapporto di reciprocità assoluta tra i due “fratelli”. Ma nei modi in cui il silenzio si fa qui sintesi e veicolo di un legame che non ha bisogno di parole per essere verbalizzato. È negli abbracci strappati tra una danza e una fuga improvvisa, negli sguardi di commozione lanciati tra le mura di una prigione, che il film prefigura la comunicazione tra i due protagonisti, senza mai cedere al sentimentalismo. Perché se è pur vero che Abang Adik gioca su un terreno “facile”, immediato per come sbatte in faccia al pubblico le sofferenze di un rapporto prima compromesso poi lacerato, ha la capacità di creare il dramma dalla vita. Fino ad indugiare su immagini e atmosfere profondamente liriche, che anche se cadenzate dalla pervasività del commento musicale, non smettono mai di suggerirci la visione di un legame eterno. Capace di trascendere, come quello kore-ediano, anche le barriere della consanguineità.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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