And then King Said, What a Fantastic Machine, di Axel Danielson e Maximilien Van Aertryck

Prodotto da Ruben Östlund, questo documentario sull’ecologia delle immagini soffre di moralismo: la proliferazione dei dispositivi sta uccidendo l’intelligenza. Apocalittico e non integrato. Freestyle

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Le crociate contro la stupidità dei balletti di TikTok, verso la pornografia a buon mercato di OnlyFans e la mercificazione della propria vita per qualche reactions in più sono argomenti che trovano, anche giustamente, tanto spazio in quei bar digitali che sono diventati i social network. Ma ad un dispositivo complesso e ipermediato come il cinema si richiederebbe qualche riflessione un po’ più strutturata sull’ecologia delle immagini di cui tutti ci nutriamo. And then king said, what a fantastic machine, di Axel Danielson e Maximilien Van Aertryck ha invece la stessa foga, la stessa (finta) giustezza etica e lo stesso accumulo teorico di un generico video caricato su un canale Youtube – proprio uno dei bersagli preferiti dai due registi svedesi – da guardare magari annuendo mentre si è in treno o si sta cucinando con gli auricolari per poi dimenticarsene a visione ultimata. Il documentario parte da lontano, rintracciando l’invenzione della camera oscura per passare gradualmente a quella della fotografia, alla nascita del cinema e all’utilizzo rivoluzionario che delle immagini in movimento esso ha fatto. Qui l’encomiabile lavoro d’archivio riesce a regalare qualche perla, come l’analisi fatta in un video del 1993 da un’anziana ma lucidissima Leni Riefenstahl che con teutonica chiarezza analizza l’importanza del montaggio e della regia anche nei celebri video/lungometraggi politici da lei curati per la propaganda nazista. Si tratta però di uno dei radi momenti riusciti – anche la presentazione spettacolare degli spot di lancio d’infotainment della CNN percuote come un maglio – all’interno di un discorso che rinuncia all’approfondimento, tramite magari interviste ad esperti, per contentarsi di far leva, in maniera aleatoria, su un autonomo impianto accusatorio. I condannati di questo tribunale del popolo documentaristico sono ovviamente gli eccessi insiti nel sistema d’immagini del XXI secolo che, paradosso in cui tanti moralisti sono in passato caduti, occupano però voyeuristicamente gran parte del lungometraggio. Così tra la twitcher che guadagna con le sue dirette ricolme di ahegao face o gli esponenti del killfie si arriva sbadigliando anche alla guerra di fake news al centro dell’assalto di Capitol Hill senza aver qualche serio elemento in più sullo statuto costitutivo dell’uomo e delle sue visioni.

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