Belli e dannati, di Gus Van Sant

Il film perfetto per dimostrare l’infondatezza delle sterili suddivisioni attuate sulla filmografia del regista. Che ha consacrato River Phoenix. Sabato 29, ore 0.00, Paramount Channel

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La produzione recente di Gus Van Sant, Restless, Promised Land o La foresta dei sogni, rinnova l’imperituro dilemma critico di approccio nei confronti del regista di Louisville: è davvero possibile scindere la sua produzione cinematografica tranquillamente in fasi, se non addirittura in un paio di sottoinsiemi per nulla comunicanti? Da un lato ci sarebbe il Van Sant “sperimentale”, quello della celebre trilogia della steady-cam (Gerry, 2002; Elephant, 2003; Last Days, 2005), che per alcuni è però una quadrilogia (l’aggiunta è Paranoid Park, 2007). Dall’altro, un cineasta sempre acuto e interessante che flirta con il mainstream di una produzione edificante e maggiormente pacificata, come in Will Hunting – Genio ribelle (1997), Scoprendo Forrester (2000), Milk (2008). I problemi di “classificazione” si hanno però con le cosiddette pellicole “giovanili” (appunto…), film come Drugstore Cowboys (1989), Cowgirl – Il nuovo sesso (1993), Da morire (1995), in cui Van Sant andava esprimendo una controcultura alternativa gloriosamente americana, che non aveva paura di tingersi e immergersi nei colori più pop di un regista che ha diretto videoclip per glorie come David Bowie e Red Hot Chili Peppers.

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belli e dannati river phoenixNon è allora un caso se fu proprio questo Belli e dannati (My Own Private Idaho nella versione originale, in riferimento al brano dei B-52’s), a consacrare agli altari della scena indie il giovane River Phoenix, nel ruolo del narcolettico Mike, marchettaro alla ricerca del padre tra le strade degli States insieme all’amico di cui è innamorato, Scott (un imberbe Keanu Reeves dall’eloquio in alcune occasioni assai forbito, il cui ruolo è infatti modellato sul personaggio del Principe Hal nell’Enrico IV di William Shakespeare): il fatto che, di lì a poco, Phoenix fosse destinato a morire di overdose accasciandosi una sera fuori dal locale di Johnny Depp in cui stavano esibendosi i Red Hot Chili Peppers (il cui bassista Flea, grandissimo amico di River come tutti i Red Hot, ha una piccola parte nel film – la band incise poi in memoria di Phoenix la ballata My Friends), in un modo nella sostanza piuttosto simile ai continui svenimenti di cui è preda il suo personaggio in Belli e dannati, contribuì sicuramente in maniera decisiva al mito della sciagurata esistenza dell’interprete. Al di là però delle motivazioni in qualche modo “celebrative” assunte suo malgrado dal film, Belli e dannati è la pellicola perfetta per dimostrare l’infondatezza delle sterili belli e dannati keanu reeves chiara casellisuddivisioni attuate sulla filmografia di Gus Van Sant. Anzi, è probabile che il doppio movimento con cui l’opera si apre e si chiude, rettilineo nel suo guardare ad una lunga e diritta strada deserta d’America on the road, ma insieme circolare nel suo rivelarsi come punto di ritorno continuo del personaggio di Mike (“Sono già stato qui; mi ricordo tutte le strade su cui sono stato. E’ tutta la vita che io assaggio strade. Questa strada non finirà mai: probabilmente gira tutta intorno al mondo…”), che ruota intorno a se stesso per poi focalizzarsi sull’orizzonte irraggiungibile, rappresenta forse nella maniera più completa una sintesi compatta ed essenziale del cinema di questo autore. Che anche in questo film continua ad affastellare personaggi singolari, figure bizzarre, corpi “catturati” come la madre di Mike nei super8 domestici, o i tableau vivants che ricordano l’esperimento di Pasolini ne La ricotta (1963) che Van Sant usa per raccontare le scene di sesso: un intero universo in perenne movimento che il regista comunque ambisce a dispiegare in una maniera, in qualche modo, fluida e scorrevole – come una strada sempre diritta che però finisce per girare intorno al mondo, o un movimento di steady-cam, o il sogno impalpabile di un narcolettico.

gif critica 2Allora davvero non ha più senso chiedersi a quale delle sue anime Van Sant stia in questo caso dando più ascolto, perché forse il procedimento con cui dà vita alle sue immagini resta sempre quello, che si tratti della rarefazione estrema di Gerry, del biopic edificante di Milk, o di una pellicola cool come questa: le coordinate estetiche di Gus si rivelano puntualmente essere a conti fatti quelle esplicitate nel suo film più sfacciato, Psycho (1998) – operazione degna di una litografia di Andy Warhol attuata sul materiale hitchcockiano (un po’ come lo Shakespeare di Belli e dannati?) illuminato con una luce – più che un colore – tutta nuova: lo sguardo, singolare, irriducibile e sempre trasversale, di un quasi morbosamente ossessionato dai fantasmi, e dalle tracce lasciate dal loro perenne vagare nel nostro mondo di piccole cose e routine.

 

 

 

Titolo originale: My own Private Idaho

Regia: Gus Van Sant

Interpreti: River Phoenix, Keanu Reeves, Flea, James Russo, William Richert, Chiara Caselli

Durata: 104′

Origine: Usa 1991

Genere: drammatico

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