#Berlinale70 – Volevo nascondermi. Incontro con Giorgio Diritti ed Elio Germano

Giorgio Diritti ed Elio Germano presentano il loro nuovo film, Volevo nascondermi, dedicato all’artista Antonio Ligabue, tra i titoli in concorso alla Berlinale

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Durante l’incontro di Volevo nascondermi, film in concorso alla 70esima edizione del Festival di Berlino, viene immediatamente a galla il grande lavoro compiuto in fase di preparazione sull’aspetto fisico del personaggio di Antonio Ligabue, un lavoro di prostetica che cerca un avvicinamento già a partire dai connotati, per poi entrare in profondità nelle mille sfaccettature offerte da un’artista pieno di angolazioni e complessità. “Se nasci zoppo, sei zoppo, e non puoi correre” comincia Giorgio Diritti. “Attualmente le cose sono molto diverse, ma allora il disagio fisico era ancora molto marcato, ricostruirlo concretamente serviva per restituire la sensazione. Possiamo dire che del personaggio non si sente la puzza che dava, ma si può immaginarla. E poi credo che questo lavoro sia stato molto utile anche ad Elio“.

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L’attore protagonista, Elio Germano prende la palla al balzo: “La prostetica in Italia è adesso un settore importante, noi in un certo senso, per quando abbiamo iniziato il film, siamo stati degli sperimentatori. Dal punto di vista attoriale questo lavoro è stato decisivo, senza non avrei potuto fare il film, perchè ti permette di entrare all’interno del personaggio umanamente. Non raccontare la sua deformità sarebbe stato un errore, lui era repellente. Abbiamo ragionato sul fatto che lui fosse l’ultima delle comparse rispetto agli altri. Raccontare un animo borderline è sempre complicato. Non ho guardato niente per la preparazione, mi sono affidato alle fonti di prima mano. Quanto a Flavio Bucci preferisco ricordarlo per le tantissime sfaccettature dei suoi personaggi, che non legato a questo unico ruolo, mi sembra la maniera migliore per onorarlo“. Un pensiero condiviso da entrambi quello di evitare di guardare altri rifacimenti, se un qualche riferimento volesse rintracciarsi, aggiunge Diritti, sarebbe nel film di Mike Leigh, Turner, per la dimensione visiva che è espressione dell’opera stessa. “Una delle caratteristiche del loro di regista è quella di andare di pancia, seguendo un’urgenza, un’emozione. La bontà dei sentimenti è data già sentendo con uno sguardo, la dimensione delle emozioni viene fuori naturalemente“.

L’approccio per costruire un personaggio del genere, è stato quello di non raccontare in maniera lineare, ma cercare di aderire ai suoi istanti emotivi, per capire in che modo Ligabue fosse capace di istaurare un rapporto tra sé e sé e tra sé e il mondo. Nella comprensione gioca un ruolo importante anche il linguaggio e l’ambiente in cui è inserito, dopo l’espulsione e l’arrivo in Italia. La scelta del dialetto si inserisce in una dimensione di autenticità, come fattore fondamentale della comunità. Sullo stesso argomento continua Germano: “Nei suoi quadri ci sono sempre gli elementi del territorio, questa vegetazione che diventava una giungla, nei suoi dipinti c’è una stratificazione di livelli, tutti i mondi che stava attraversando o che aveva attraversato e raccontano tutte queste tensioni.”  Un ragionamento nel quale gli dà manforte ancora Diritti “a livello cromatico ci sono 200 tonalità di verde, lui si nutriva visivamente di quello che lo circondava, ho dato al paesaggio il riflesso di quello che lui vedeva. Il grandangolo faceva risaltare il territorio e percepire lui più piccolo, tutto è fatto in funzione rappresentativa, nel tentativo di andare oltre ed accedere ad una parte più intima e profonda.

Tensioni presenti a iosa nella vita dell’artista. Volevo nascondermi, dice Diritti, è un ulteriore riconoscimento alla sua disperata e sofferente esistenza, in un campo difficile come è quello del film in costume d’epoca. “Ha subito, è partito in salita, era un bimbo abbandonato, adottato da una famiglia per una necessità economica, per ricevere il sussidio. Aveva inoltre una grave sofferenza fisica, il rachitismo, la misofonia, un disturbo cerebrale per i suoni che porta alla pazzia. Era una persona in fatica che quando ha visto la possibilità di riscatto nell’espressione artistica, si ci è aggrappato con tutte le sue forze, ottenendo un riconoscimento generale. La favola di Ligabue è una favola in cui ognuno di noi può trovare qualcosa, se ci siamo mai sentiti emarginati o isolati.

Per ricreare l’uomo e l’artista c’è stata naturalmente una grande ricerca, sono state visionate interviste, i video su internet.  E poi la corposa aneddotica nata attorno ad una figura eccentrica e singolare, storie al limite dell’inverosimile. Elio Germano sottolinea come l’intento principale era di evitare di utilizzare il nome di Antonio Ligabue per pilotare un altro messagio, un’operazione molto diffusa al cinema, e tentare invece di lasciare al personaggio la libertà di emergere da solo: “La pittura era un suo modo di sconfiggere i demoni, abbiamo cercato di assecondare ogni aspetto della personalità, anche accettandone i disatri, c’è nel suo ritratto la ricchezza e la complessità dell’essere umano. Siamo noi, con più coraggio, siamo noi con una dignità maggiore. Quello che è interessante è che a tanti anni di distanza si parli ancora di lui e non dei tanti ricchi dell’epoca, che ormai non ricorda più nessuno“.

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