#Berlinale68 – La prière (The Prayer), di Cédric Kahn

Storia di un’anima raccontata con il corpo… Il merito di Kahn sta nella capacità di trovare l’equilibrio tra la semplicità dello stile e l’energia impetuosa del tono. In concorso

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Potrebbe essere una sorpresa La prière, soprattutto a confronto con la filmografia di Cédric Kahn. Anche se, a ben guardare, le sue atmosfere di genere e i suoi intrighi sentimentali abbiano posto ben presto questioni di aderenza alla realtà. E proprio di asciutto realismo si dovrebbe parlare a proposito di quest’ultimo film, storia di Thomas, un ragazzo con gravi problemi di droga e di abusi, che finisce in un centro di recupero “religioso”, dove si prega e si lavora, lontano da tutto e tutti. Ma la parabola di sopravvivenza e redenzione, proprio per il contesto di riferimento, non può che trasformarsi ben presto in un’avventura spirituale. A riprova che il realismo non sia che il semplice nome di un passaggio, un inizio del cammino verso le mille altre dimensioni della realtà…

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Eppure, in ogni caso, qui si parte dalla sostanza delle cose, dalla concretezza più sanguigna. Kahn sembra mettere a frutto più che mai la sua esperienza d’attore (da ultimo, nel necessario L’economie du couple) e lavora al meglio con il suo protagonista, Anthony Bajon, lasciandogli sprigionare tutta l’energia, la rabbia, l’inquietudine e il desiderio della sua gioventù. Ed è così che si relaziona, seppur in misura necessariamente più contenuta, agli altri interpreti, in modo che tutto passi innanzitutto per il corpo: le crisi (d’astinenza), le rotture, gli scontri e gli incontri, la frenetica, impulsiva “prima volta” con Sybille, lo struggente abbraccio con il “padre” Pierre… Thomas sente con il corpo, prima ancora che col cuore e con l’anima, al punto da mostrare ben poco della profondità nascosta, quel grumo segreti che sta al di qua dell’esperienza fisica del mondo, delle cose, delle relazioni. Del resto, è quasi l’unico a non essere in grado di raccontarsi agli altri, il solo praticamente senza una storia. Quel che riusciamo a sapere è solo un’intuizione, venuta fuori da un accenno, da una reazione, un movimento. E in tal senso, in quest’assenza di psicologia, in questa pura evidenza del gesto, Kahn riprende il sentiero rischiosissimo che va da Rossellini a Bresson, quello che congiunge la carne e lo spirito della realtà.

la priere2Del resto, anche qui la fede è vissuta e vista dapprima nella sua dimensione fisica, è questione di lotta, controllo della posizione, ricerca di una compostezza nella preghiera. E poi gli schiaffi ripetuti di suor Myriam (Hannah Schygulla) che spinge il ragazzo alla verità, l’ipotesi della rinuncia alla propria sua sessualità… È, allora, del tutto consequenziale che l’illuminazione avvenga grazie, attraverso il corpo. Un incidente, una gamba che sembra rotta, una montagna brulla, nebbiosa, lontana, che pare richiamare il vulcano su cui si perde e si ritrova Ingrid Bergman in Stromboli. Qualcuno può gridare all’assurdità del miracolo o minimizzare la portata emotiva e spirituale del cambiamento, ponendo questioni di verosimiglianza o di pathos. Come se i miracoli dovessero essere o realistici o spettacolari… o come se, d’altro lato, le soluzioni di una crisi, la fine di un dolore, il risveglio di una speranza potessero avere una spiegazione. Per fortuna no, il vento continua a soffiare dove vuole. E il merito di Kahn sta nella capacità di trovare l’equilibrio tra la semplicità dello stile e l’energia impetuosa del tono, tra la pace sognata e le cicatrici della vita. E alla fine, con coerenza, riafferma il suo sguardo laico, ad altezza d’uomo. Thomas sceglie, ma l’ultima inquadratura non ci mostra il suo volto. L’ipotesi di una nuova vita, da affrontare con una nuova consapevolezza, ma senza nessuna certezza.

 

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