Black Mass, di Devanny Pinn

Un film imperfetto ma con un grande spirito rivoluzionario in grado di renderlo estremamente sincero. Una riflessione non scontata sulle derive del true crime. Dal Monsters 2023 di Tarranto

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Inverno 1978, Florida. Nel giro di ventiquattr’ore, seguiamo i movimenti di un uomo misterioso. Lo vediamo prima intento a farsi la barba. Poi lo seguiamo mentre entra in un negozio e cerca di attaccare bottone con qualche ragazza, rubando loro i documenti. Infine, lo vediamo arrivare davanti ad una confraternita di sole ragazze. Qui l’attenzione si sposta di loro, la loro vita, le loro azioni quotidiane, anche se permane un’agghiacciante sensazione di morte nell’aria.

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Essendo una persona che lavora principalmente nel genere horror, una domanda che mi viene spesso posta è “Cosa ti fa paura?”, e la risposta è sempre stata le persone. Le persone – e ciò che sono in grado di fare agli altri – sono il soggetto più terrificante per me.

Le parole di Devanny Pinn, regista e attrice americana, sono il giusto punto di partenza per parlare della sua prima opera dietro la macchina da presa: Black Mass. Attingendo ad un fatto di cronaca nera degli anni Settanta, Pinn assembla un’opera cupa e inquietante. Partendo da un budget molto basso, Black Mass si pone in modo critico rispetto alla dinamica secondo cui, durante le indagini per omicidio, i criminali vengono spesso e volentieri commercializzati e persino idolatrati in maniera (quasi) inconsapevole dall’opinione pubblica. Si cerca di scoprire tutto su di loro, il passato, la loro condizione psicologica, vita morte e miracoli. I media, in questo senso, sono i principali interpreti nel dare pubblicità agli assassini e nel conferire loro celebrità, fascino. Ma in questo processo di spettacolarizzazione delle tragedie quotidiane, manca sempre un’attenzione particolare alle vittime, alle persone a cui è stata tolta prematuramente la vita.

La Pinn pone l’attenzione della sua ricerca artistica proprio su questo tema, a dir poco centrale nell’epoca del boom del true crime, basti pensare alla recente polemica che ha investito la serie tv Netflix sul serial Killer Jeffrey Dahmer. Il tentativo della regista è quindi quello di mostrare un cinema che si rifiuti di estetizzare la figura di un assassino seriale. Al contrario, l’idea è quella di “spostare” l’attenzione verso chi è oggetto dello sguardo del serial killer. In questo senso, la regista alterna inquadrature in soggettiva dell’assassino che osserva da vicino le vite delle ragazze della confraternita, a riprese che seguono i movimenti furtivi dell’uomo. Questa alternanza insistita, forse anche troppo, dentro e fuori la mente malata di un assassino, crea un istintivo senso di repulsione da parte dello spettatore verso ciò che sta vedendo; ed è proprio qui che Pinn centra il suo obiettivo. Peccato che in certi momenti, il disagio diventi troppo forte facendo perdere al film il mordente necessario per tenere tutti incollati alla sedia. Sicuramente Black Mass è un film imperfetto ma è proprio il suo spirito rivoluzionario nei confronti dell’immaginario collettivo a renderlo da una parte fallibile ma dall’altra estremamente sincero.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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