Blackout, di Larry Fessenden

Nella sezione L’ombra del lupo e in concorso al Monsters – Taranto Horror Film Festival. il grande cineasta indipendente continua la sua personale rivisitazione dei mostri classici dell’orrore

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Fatta eccezione per un episodio del film collettivo Isolation (2021), sorta di instant-movie incentrato sulla pandemia Covid-19, avevamo lasciato Larry Fessenden nel 2019 con Depraved, personale rivisitazione della creatura di Frankenstein. E proprio da lì sembra ripartire Blackout, che insieme anche all’ormai storico Habit (1995) forma oggi un’ideale trilogia su altrettante figure mitologiche dell’horror classico: il vampiro, Frankenstein e, adesso, il licantropo. Sempre però alla maniera di Fessenden, appunto. E quindi, ritmo rilassato, improvvise esplosioni di violenza e una narrazione scandita da lunghi e ripetuti dialoghi. Chi lo conosce sa bene cosa aspettarsi: qualcuno potrebbe storcere il naso, forse persino annoiarsi, ma il cinema del regista americano è sempre stato questo, fedele a se stesso e a un’idea di cinema coerente fino in fondo con la propria natura indipendente e fieramente autarchica (come al solito, è anche sceneggiatore e autore del montaggio). Perché in Fessenden è la parola che crea e distrugge il mondo, sin dai tempi dell’esordio con No Telling (1991); ed è sempre tramite essa che i personaggi vivono e muoiono per raccontare la Storia di un paese e gli orrori più rimossi che questo nasconde in grembo. Oggi è l’unico erede, forse, del cinema underground di Andy Milligan. Naturalmente senza possedere quell’anima sporca, punk e sovversiva che caratterizzava l’opera rozzamente anarchica del regista morto di AIDS nel 1991, ma di certo ne conserva e tramanda lo stesso spirito di rottura nei confronti del contemporaneo: una frattura radicale in termini di stile, di approccio al genere e, naturalmente, di aspettative del pubblico (puntualmente disattese).

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Come raccontare nuovamente la figura del lupo mannaro? Per Fessenden la soluzione è già tutta nel classico, ovvero nel primo, intramontabile L’uomo lupo di George Waggner, con Lon Chaney Jr. nel ruolo di Larry Talbot, qui omaggiato sin dal nome della cittadina Talbot Falls. Anche in Blackout, infatti, il protagonista Charley (lo straordinario Alex Hurt, figlio di William, al quale è riservato un bellissimo omaggio che è anche uno dei momenti più emozionanti del film) cerca una propria identità attraverso il senso di appartenenza a una comunità dalla quale si sente attratto e respinto allo stesso tempo. Ma se nel 1941 la sceneggiatura di Curt Siodmak limitava la schizofrenia al solo personaggio di Talbot, oggi questa si è fatta endemica e coinvolge una nazione intera e i suoi abitanti: e Charlie – il colpevole, il mostro – cerca disperatamente di fare da collante di una comunità divisa tra chi detiene il potere e fa il bello e il cattivo tempo, chi è vittima e chi invece viene accusato soltanto per il colore della pelle. È un film che procede per blocchi, ognuno dei quali scandito dal dialogo e dal confronto con l’altro, dove il vero motore narrativo è dato dall’incontro tra due personaggi che insieme parlano e si raccontano, come in una ballata folk incentrata sugli ultimi e sugli emarginati. Razzismo, pregiudizio, alcolismo, persino ambientalismo: lo sguardo di Fessenden non ha mai smesso di essere politico (ricordate Wendigo?) e di inseguire una libertà di racconto che può permettersi un incedere ondivago e solo in apparenza inconcludente. È lui il lupo mannaro, è l’artista (nel film, un pittore) che impersona la bestia, che sporca il mondo di rosso sangue e permette all’horror di indossare l’abito del dramma (o viceversa?) per ricordare che, alla fine del film come della vita, è sempre e soltanto una questione di amore.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
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