Blog DIGIMON(DI) – Cosa ci rende speciali?

Come umani ci siamo trasformati attraverso la tecnologia. Ri-tornare umani non significa immaginarsi pre-tecnologici, ma immaginare e vivere un mondo in cui le IA siano in armonia con gli esseri umani

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Come umani ci siamo continuamente trasformati (e con noi il mondo) attraverso la tecnologia. Ri-tornare umani non significa dunque immaginarsi un mondo pre-tecnologico, ma immaginare e vivere un mondo in cui le Intelligenze Artificiali siano in armonia con gli esseri umani. E gli esseri umani sappiano guarire dalla presbiopia emozionale di questi anni…

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(questo articolo è stato pubblicato sul n.0 di Sentieriselvaggi21st)

 

“E’ davvero analogica!”

(da ANON, di Andrew Niccol)

 

Qualche storico sostiene che il XXI secolo è iniziato con l’abbattimento delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. E’ una lettura, molto geopolitica, molto di immaginario storico-politico. Il nuovo secolo inizia come il ‘900, con una Guerra.  Tuttavia se invece vogliamo, sempre metaforicamente, individuare l’inizio del “nuovo millennio”, utilizzando delle coordinate un po’ più “antropologiche”, ovvero attraverso momenti che hanno cambiato profondamente l’essere umano, propenderei per un’altra data: 9 gennaio 2007.

Con la presentazione del primo iPhone da parte di Steve Jobs, entriamo veramente nel “nuovo mondo”. Come ha scritto Kevin Kelly “L’era dei computer è cominciata quando si sono fusi con i telefoni “.

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Nel giro di un decennio questo strumento “leggero”, ha trasformato la “macchina computer”, quella pesante, statica anche se portatile, che per utilizzarla dovevi trovarti uno spazio fisico, una scrivania, una tastiera, un mouse, insomma che aveva bisogno di fermarsi, in un oggetto di fatto “indossabile”, che in poco tempo ha sostituito decine e decine di altri strumenti tecnologici che usavamo.  Ma che soprattutto vive con noi, è sempre con noi.  Possiamo uscire senza ombrello ma non senza lo smartphone (dal quale prendiamo le info sul tempo, peraltro…).

Oggi siamo in miliardi a possedere (o essere posseduti?) questo computer portatile, e le nostre vite quotidiane sono scandite continuamente dal nostro interfacciarci con lo schermo.  Gli schermi, peraltro, sono dappertutto, e già ci guardano.

Sarebbe da studiare se, nella storia dell’umanità, sia mai accaduto che in così pochi anni una tecnologia si diffondesse tra le persone e ne modificasse in maniera così sensibile i comportamenti, le pratiche individuali e sociali. Forse ci troviamo di fronte a un’eccezione.

Prima c’era il computer (che tuttavia ci ha messo decenni per inserirsi nelle vite quotidiane) poi arrivò Internet (che pure ha dovuto attendere il suo tempo per diventare indispensabile), ma solo con la miniaturizzazione del computer, la sua connessione continua alla rete, il suo “travestimento” da telefono (strumento che in sé usiamo sempre meno), e la sua portabilità ci troviamo di fronte a uno strumento che, radicalmente,  ha cambiato il nostro modo di vivere. “Il nostro mondo è plasmato da dispositivi e modi di pensare digitali, e una delle principali conseguenze di questa situazione è che proiettiamo l’inflessibilità del tempo digitale su di noi. Attraverso gli smartphone il nostro universo è sempre acceso, “tintinna” continuamente” ha scritto Douglas Rushkoff nel suo “Presente continuo. Quando tutto accade ora” (Codice Edizioni, 2014).

Ecco, siamo sempre accesi. E lo siamo anche per gli altri. Che non distinguono più tra il nostro essere corporeo e il nostro essere digitale. “Anche se possiamo essere fisicamente in un posto solo, i nostri io digitali si trovano su ogni dispositivo, piattaforma o rete grazie alle identità virtuali. Gli individui e i programmi che “abitano” questi luoghi trattano i nostri profili digitali come se avessero a che fare con l’originale.” (D. Rushkoff).  Insomma abbiamo copie di noi stessi che comunicano con copie di altri esseri umani.

Sembra uno scenario da film di fantascienza del ‘900, dove le macchine (o gli alieni) si impossessavano del pianeta e dominavano sugli umani. Nella imprevedibile realtà del secondo decennio del XXI secolo ci troviamo di fronte a uno scenario assolutamente imprevedibile. E’ come se il futuro fosse scomparso, annichilito da quello che Rishkoff ha definito lo “shock del presente”, aggiungendo che “Nell’era digitale il tempo non è più lineare, ma etereo e associativo. Il passato non è una sequenza temporale che sta dietro di noi, ma è disperso in mezzo a un mare di informazione. Come una sorta di “inconscio digitale”, i dati grezzi rimangono nell’oblio, fino a quando non saranno raggiunti da un programma in futuro.”

Ora che anche l’inconscio è diventato digitale (quanto del nostro passato ricordiamo attraverso strumenti digitali?), possiamo “liberarci” dal Secolo della Psicanalisi e, finalmente, approdare a nuove forme di spiritualità e ridefinizioni dell’IO?

Sono domande un po’ folli, scritte in un pomeriggio d’agosto meravigliosamente funestato da quei temporali estivi che tanto adoravo da bambino. Già, perché li adoravo? Forse perché mettevano in crisi la stabilità del tempo estivo, quelle lunghe infinite giornate calde dell’infanzia e dell’adolescenza, che i temporali invece destabilizzavano, creando un nuovo ordine sociale e comportamentale.

Ecco, la tecnologia è come il tempo (atmosferico), un caos (quasi) imprevedibile. Possiamo individuarne delle traiettorie, delle linee orientative, tutt’al più possiamo prevedere nei tempi (cronologici) brevi. Ma non possiamo sapere che tempo farà e che tecnologie useremo nel 2028, fra dieci anni.

Eccoci dunque in un mondo che, nel giro di soli dieci anni, ci ha trasformato in un “popolo degli schermi”.

Guardiamo schermi dalla mattina alla sera, al bar, al ristorante, in banca, dovunque. Leggiamo come non abbiamo mai fatto in passato, ma la maggior parte di quello che leggiamo proviene da schermi digitali.

In pochi anni siamo cambiati. Antropologicamente trasformati dagli schermi e dai computer che “indossiamo” (quasi, ma presto in realtà).  A questo dispositivo abbiamo poi scelto di aggiungere (forme di transizione delle società degli schermi) anche la comunicazione globale/individuale dei Social Network. Anche qui nel giro di pochi anni abbiamo creato una comunicazione immediata globale, dove tutti siamo connessi e dialoghiamo in continuazione con altri distanti da noi, a volta tanto distanti altre volte appena accanto a noi.  Il “mondo globale”, con tutte le sue storie, idee, accadimenti, è letteralmente penetrato nelle nostre vite, e il nostro “doppio digitale” (come fossimo dentro quel meraviglio doppio mondo virtuale che era Second Life, di cui conservo quella straordinaria reliquia che è la guida ufficiale cartacea pubblicata da l’Espresso nel 2007) si connette in continuazione con eventi, disastri, notizie vere e false, e tutta la nostra giornata è diventata un insieme di continui flussi di pixel, di connessioni con le persone che amiamo o con sconosciuti, di emozioni di secondo e terzo grado, che proviamo per eventi e persone che sono fisicamente distanti da noi (e a volte non ci accorgiamo di quella persona a noi vicina, non siamo in grado di leggerne la fragilità, la sofferenza nascosta, diventando esseri emotivamente presbiti, troppo presi nell’occuparci dell’intero mondo per essere anche in grado di vivere quello a “noi circostante”).

Il mondo è diventato piccolo, siamo dappertutto con gli strumenti digitali e i mezzi di comunicazione ci possono portare in poche ore da ogni parte del globo. Ma di questo mondo ci stiamo caricando addosso ogni azione, ogni evento, ogni “attimo globale”.  Ogni catastrofe diventa patrimonio di tutti e siccome il mondo è pieno di catastrofi siamo continuamente immersi in questa “era del disastro” che fa tanto sembrare ormai arrivato quell’Incidente del futuro di cui parlava Paul Virilio nell’ormai lontano 2002.

Dentro questo “nuovo mondo”, in cui alcuni sono direttamente nati, mentre i più grandi sono “catapultati”, ci ritroviamo in un universo di paradossi continuo.  I confini spariscono per comunicazioni, merci, ecc, mentre improvvisamente ridiventano importanti per (alcuni) esseri umani. Proprio mentre possiamo mettere in pratica in tempi rapidi la propensione allo spostamento degli esseri umani, ci ritraiamo impauriti, immaginando un “Mondo Svizzera” protetto e chiuso, dove chi vi abita ha tutte le ricchezze e le possibilità del mondo (come di muoversi liberamente per il globo) ma solo pochi eletti possono accedervi. E’ la società del “non accesso”, l’esatto contrario di quanto predicava Jeremy Rifkin nel 2000. Oggi che possiamo vivere e goderci il mondo senza dover necessariamente “possedere” qualcosa, ecco che degli esseri umani impauriti si rinchiudono nel loro mondo/condominio, nell’illusione di scacciare ogni forma di diversità e fastidio (malattie, povertà, idee), come se il “nostro mondo” fosse perfetto e da difendere da continue minacce esterne (i troll russi, gli emigranti, le merci straniere a basso costo, l’economia digitale o peggio ancora quella della condivisione…).

Ed ecco che il mondo si trasforma politicamente in un paradosso ibrido. E se apparentemente lo scontro viene raccontato come tra progressisti e conservatori (o sinistra e destra, immaginando ancora le categorie degli ultimi due secoli come funzionali al racconto di oggi), quello che vediamo, con Kevin Kelly, “ è tutto un flusso di forme nuove che scaturiscono da uno scomodo rimescolamento di forme più vecchie”.

Kelly nel suo fondamentale libro L’inevitabile (Il Saggiatore, 2017, sui cui torneremo sicuramente), descrive questo processo attuale come uno “Scontro culturale tra il Popolo del Libro e il popolo dello schermo”. I primi, il Popolo del libro “vivono attraverso il libro, attraverso l’autorità proveniente dagli autori. Il fondamento risiede nei testi.” La cultura degli schermi invece “è un mondo di flussi costanti, di infiniti assaggi musicali,  tagli frettolosi e di idee incomplete. La verità non è trasmessa dagli autori o dalle autorità ma viene assemblata in tempo reale, pezzo per pezzo, dallo stesso pubblico. (…) Il popolo del libro preferisce le soluzioni fornite dalla legge mentre quello dello schermo individua la tecnologia come soluzione di tutti i problemi. La verità è che siamo in una fase di transizione le persone moderne vivono il conflitto tra queste due modalità”.

Si, siamo nel pieno di questo conflitto e, francamente, non esiste una verità o una strada unica da scegliere.

Possiamo solo convivere dentro questo conflitto, facendo proprie le caratteristiche migliori di ognuno di questi mondi. Libro e schermi possono convivere, ma sarà un processo complesso, per nulla scontato.

 

Per il momento (ma per quanto ancora?) gli esseri umani e le emozioni che provano non possono ancora “essere copiati” e, come dice Kelly “le uniche cose veramente di valore sono quelle che non possono essere copiate”. Da questa meravigliosa e contaminata realtà dell’essere umano dobbiamo ripartire. Come umani ci siamo continuamente trasformati (e con noi il mondo) attraverso la tecnologia. Ri-tornare umani non significa dunque immaginarsi un mondo pre-tecnologico, ma immaginare e vivere un mondo in cui le Intelligenze Artificiali siano in armonia con gli esseri umani, per una sempre migliore qualità della vita.

Concludo con questo brano di Kelly, molto illuminante:

Negli ultimi sessant’anni mentre il progresso meccanico si occupava di riprodurre comportamenti e capacità che abbiamo sempre considerato unicamente umani, abbiamo dovuto cambiare anche quello che ritenevamo ci distinguesse dal resto. Ogni volta che inventeremo una specie di IA saremo costretti a rinunciare a un’abilità presunta unicamente umana, e ognuna di queste rinunce sarà triste e dolorosa. Non saremo più le uniche menti in grado di giocare a scacchi, di far volare un aereo, di produrre musica o di scoprire una legge matematica. Passeremo i prossimi tre decenni, ma forse anche il prossimo secolo, in una continua crisi di identità, domandandoci incessantemente a cosa servono gli esseri umani. Se non siamo gli unici a essere artefici di strumenti, o artisti, o dotati di una morale etica, allora cosa ci rende speciali? La somma ironia è che i benefici più significativi che saranno apportati da un’IA funzionale e quotidiana non saranno l’aumento di produttività, un’economia di abbondanza o un nuovo modo di fare scienza (malgrado tutto ciò si  verificherà comunque). Il beneficio più grande sarà che le IA ci aiuteranno a definire l’umanità. Abbiamo bisogno che le IA ci dicano chi siamo.”

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