Blog GUERRE DI RETE – Come sono andate le piattaforme nelle elezioni USA?

Il tema della disinformazione e cattiva informazione ha dominato in modo quasi ossessivo sia i canali social sia le reti televisive. L’appuntamento con la newsletter di Carola Frediani

Guerre di Rete – una newsletter di notizie cyber
a cura di Carola Frediani
N.86 – 09 novembre 2020

Oggi si parla di:
– piattaforme alla prova americana
– se hackerano la clinica di psicoterapia
– chi si è preso i bitcoin di Silk Road
– altro

ELEZIONI USA 2020
Piattaforme e media alla prova delle presidenziali americane

Come sono andati i social media e le piattaforme digitali in queste elezioni così sofferte, tese e atipiche? Diciamo che si sono impegnati, con alterni risultati. Partiamo da uno degli elementi cruciali, il grande tema di queste elezioni: il rischio che qualcuno dichiarasse vittoria prima del tempo e dei dati ufficiali, e che media e social media amplificassero, o semplicemente lasciassero campo libero a queste fughe in avanti. Ebbene, su questo le aziende tech sono state più dirette e trasparenti su come intendevano comportarsi rispetto al passato e anche rispetto ai media.

Twitter aveva detto che si sarebbe basata su una serie di testate (ABC News, AP, Reuters, CNN, CBS News, Decision Desk HQ, Fox News e NBC News) per determinare i vincitori. E avrebbe etichettato i tweet di chiunque proclamasse la vittoria senza citare una di queste testate. Facebook in modo analogo intendeva appoggiarsi sul consenso di una serie di media: ABC News, AP, Reuters, CNN, CBS News, Decision Desk HQ, Fox News e NBC News, e avrebbe etichettato i post di vittorie premature. Snapchat avrebbe cancellato uscite di questo tipo. YouTube avrebbe affiancato un pannello informativo alle ricerche sui risultati delle elezioni. (Axios). In pratica, ha commentato il giornalista Casey Newton, le piattaforme si sono sforzate di spiegare come esattamente intendevano agire di fronte a questo scenario più delle reti tv via cavo.

Disinfo, misinfo e perception hacking
Il tema della disinformazione e cattiva informazione (rispettivamente, disinformation e misinformation) ha dominato in modo quasi ossessivo proprio le reti televisive, come si vede da questo grafico. Gran parte di tale conversazione è stata impostata dalle uscite del presidente Trump, e dalla sua retorica sui media e le loro “fake news”. E non solo retorica, anche soldi sonanti in pubblicità: “fake news” è stato il tema più costante nella spesa pubblicitaria di Trump su Facebook nell’ultimo anno. Altro tema costante è stato quello dell’immigrazione. Invece Biden su Facebook ha speso in modo continuativo su temi come il sistema sanitario (e soprattutto, negli ultimi mesi, l‘economia).

Sul tema della disinformazione, interessante il caso di YouTube. Secondo uno studio, il suo algoritmo di raccomandazioni ha fatto emergere meno video di disinformazione di nicchie estreme (complottisti ecc) nella corsa alle elezioni presidenziali rispetto alla campagna del 2016. In compenso, sembra aver dato più rilevanza e visibilità ai video di reti tv conservatrici come Fox News, probabilmente perché considerate più autorevoli, spiegano i ricercatori (Business Insider).

Ovviamente episodi di disinformazione non sono mancati. E sono stati registrati soprattutto negli Stati considerati l’ago della bilancia, come Michigan e Pennsylvania (New York Times). Nel primo ad alcuni elettori sono arrivati sms che facevano credere ci fossero dei problemi con le schede elettorali. A Flint ci sono state telefonate effettuate da sistemi automatici (robocalls) che cercavano di sviare i cittadini sul giorno in cui si poteva votare. (The Verge). Da notare che sono due esempi in cui non c’entrano direttamente i social media.
Un caso esemplare è stata la Pennsylvania, Stato chiave e conteso fino all’ultimo, dove si sono diffuse falsità di vario tipo, legate soprattutto all’idea che ci fossero irregolarità nel voto. Il problema è che a originarle e promuoverle sono stati anche il profilo Twitter del partito repubblicano e vari influencer di destra.

E qui veniamo a un altro dei temi dominanti di queste elezioni, il perception hacking.  È un’espressione che è stata impiegata in contesti diversi. A usarla è stata Facebook nei giorni precedenti le elezioni per indicare la volontà di attori malevoli di diffondere la percezione falsa di aver violato/alterato il sistema elettorale o di aver danneggiato le elezioni. Anche se non è vero, l’obiettivo è diffondere l’impressione che sia vero per generare sfiducia e tensioni sul processo elettorale e il suo esito.

Tornando ora al caso della Pennsylvania, secondo il direttore delle campagne dell’organizzazione Avaaz, ci sarebbero stati “ripetuti tentativi di perception hacking – in cui presunti esempi di irregolarità nel voto iperlocale (molte delle quali sono normali nelle elezioni) sono amplificate da influencer che condividono cattiva informazione (misinformation) su Facebook e Twitter per creare una falsa narrazione su brogli elettorali, completamente ingigantita” (Buzzfeed news).

Ma il punto centrale che non sarà sfuggito a chi ha seguito le presidenziali Usa è che il diffusore principale di disinformazione sulle elezioni è stato il presidente Trump. Il suo profilo Twitter ha sparato tweet a ripetizione sul tema brogli, oltre che sull’esito delle votazioni, obbligando il social a semi-oscurare i tweet del presidente dietro a degli avvisi che specificavano come quelle affermazioni fossero contestate (disputed) o fuorvianti. “Ci sono più avvertimenti sul feed di Trump che su un pacchetto di sigarette”, ha commentato qualcuno.

Dal suo canto Facebook, subito dopo le elezioni, ha dovuto chiudere un gruppo intitolato Stop the Steal (“fermate il furto”) che diffondeva disinformazione sulle elezioni e la loro regolarità a 360mila iscritti; gestito da sostenitori di Trump invocava “boots on the ground”, un intervento attivo insomma per “proteggere l’integrità del voto”. Quando gli amministratori hanno capito che stavano per essere chiusi hanno chiesto ai membri del gruppo di iscriversi con la mail su un altro sito per spostarsi su una piattaforma diversa (Vice).

In generale Facebook si è detta pronta a implementare una serie di misure di emergenza per smorzare la possibile ondata di disinformazione postelettorale o appelli alla violenza, con cambiamenti previsti anche a Facebook Live (Boing Boing). Inoltre mentre i voti venivano contati, i dati interni al social di Zuckerberg mostravano un aumento significativo dei trend di incitamento alla violenza, con una crescita del 45% nella metrica che valuta il potenziale pericolo basato su certi hashtag e termini di ricerca. Questo è interessante perché l’esistenza stessa di questo parametro interno a Facebook per tastare il polso del rischio di diffusione di violenza attraverso la piattaforma sembrava essere sconosciuto ai più, riferisce Buzzfeed. Anche TikTok ha bloccato hashtag che erano usati per diffondere disinformazione e teorie del complotto sulle elezioni (The Verge). Mentre l’alfiere della alt-right, dell’estrema destra americana, ed ex consigliere di Trump Steve Bannon vedeva sospendere il suo show su Twitter (e rimuovere l’episodio da YouTube) per aver più o meno obliquamente invocato violenza contro l’ex direttore dell’Fbi Christopher Wray e Anthony Fauci, il dottore alla guida degli sforzi americani anti-pandemia mal tollerato da Trump (Techcrunch).

I social lasciano la scena ai media
E dunque veniamo al nodo del ragionamento di questa settimana. Queste elezioni hanno rimesso al centro i media “tradizionali”, e nel riposizionarli al centro li hanno messi anche sulla graticola però. I social media, nel mirino da anni ormai e allertati da mesi dei rischi di attacchi e disinformazione varia, hanno preso misure più o meno valide ma  comunque hanno cercato di darsi regole di ingaggio chiare, e nel contempo di lasciare la scena (e la responsabilità) ai media tradizionali. E questi si sono trovati a non avere fatto un analogo threat modeling (analisi dei diversi scenari di minaccia e relativa preparazione su come rispondere), come pure qualcuno aveva consigliato di fare loro tempo fa. E a non aver coltivato negli anni la propensione a sfidare affermazioni false di politici, proprio nel momento in cui alcune delle più rilevanti centrali di cattiva informazione erano diventati i politici e altre fonti considerate tradizionalmente “autorevoli”. Ne è seguito un quadro incerto e caotico dove non sono mancati i colpi di scena. Ad esempio Fox News che tagliava le dichiarazioni pro-Trump di Rudi Giuliani per annunciare che il Michigan era stato vinto da Biden (qui una sintesidella comica Sarah Cooper). Ci sono state perfino proteste di sostenitori di Trump contro Fox, in un ribaltamento le cui ragioni sono probabilmente complesse e stratificate e che non starei ora a esaminare (qua un thread, qua un commento di CNN). Per altro, il 6 novembre, quando Biden stava ormai per vincere, filtrava un memo interno di Fox in cui si dava indicazione di non chiamarlo “Presidente eletto” quando il network avrebbe indicato il vincitore delle elezioni (memo poi in parte disatteso a quanto pare). Ma sempre il 6 novembre ancora la corrispondente di Fox smentiva Trump sui brogli elettorali. (Queste oscillazioni di Fox sono legate anche alla differenza di atteggiamento fra i corrispondenti sul campo, gli anchor, e gli ospiti delle trasmissioni). D’altra parte la campagna repubblicana sembrava pronta a riconsiderare autorevoli una serie di testate come il NYT, picconate fino a quel momento, quando queste si sono mostrate caute nell’assegnare vittorie a Biden.

Ma il momento più emblematico – e dove alcuni media si sono ripresi finalmente il loro ruolo e la responsabilità di fact-checker – è stato quando alcune tv, come MSNBC, ABC, CBS, hanno troncato il discorso di Trump in cui il presidente faceva affermazioni sulle elezioni palesemente gravi e infondate per specificare che appunto non era vero quanto stava affermando (Foxnews).
Tanto che qualcuno le ha paragonate alle modalità che si erano dati i social media (in una interessante inversione di ruoli e prospettive).
“MSNC che taglia la conferenza stampa e fa il fact-checking è l’equivalente degli avvisi interstiziali messi da Twitter [sui tweet fuorvianti, falsi ecc, ndr] e i limiti alle condivisioni. Fox news/CNN che continuano la diretta sulla conferenza ma gettano dubbi sulle affermazioni di Trump sono come le etichette di Facebook”, ha twittato l’ex CSO di Facebook oggi allo Stanford Internet Observatory, Alex Stamos.

Il giudizio sui social
Ciò non toglie che i social media siano stati giudicati e criticati, anche con dei distinguo. Ad esempio, alcuni commentatori hanno ritenuto che il modo in cui Twitter ha moderato affermazioni false dei politici (a partire da Trump) sul processo elettorale sia stato più efficace e coerente di quello di Facebook (WSJ). Più in generale c’è chi ritiene che limitarsi a etichettare i contenuti fuorvianti non sia abbastanza e non limiti davvero la diffusione di disinformazione (FT). E Facebook Live, lo strumento per il live streaming del social, è stato accusato di aver diffuso teorie del complotto di matrice russa, scrive Buzzfeednews.

Secondo il giornalista Casey Newton, Twitter e Facebook avrebbero comunque mostrato come si può lavorare rapidamente e in modo efficace per frenare la disinformazione nei momenti importanti. Meno bene avrebbe invece fatto YouTube, che avrebbe tenuto un approccio meno puntuale, specie con le dichiarazioni premature di vittoria. Inoltre la testata Insider ha individuato diversi streaming YouTube nel giorni delle elezioni – incluso un canale da 1 milione di follower – che diffondevano falsi risultati elettorali a migliaia di persone, guadagnano nel contempo con la pubblicità. La piattaforma li ha poi rimossi dopo la segnalazione. Un altro canale di un noto opinionista conservatore Steven Crowder avrebbe promosso varie accuse infondate di brogli a milioni di spettatori. Idem per il canale di estrema destra One America News Network che ha parlato di vittoria di Trump.

Un primo bilancio
Ma per tirare le somme, possiamo dire che in queste elezioni le piattaforme sono arrivate abbastanza preparate e con un piano per mitigare una serie di rischi, nell’ordine: le notizie false vere e proprie, prodotte da varie centrali (esterne al Paese, come i troll russi o i ragazzi macedoni nel 2016; interne al Paese, come oggi i seguaci di QAnon); la creazione di reti coordinate e inautentiche per amplificare propaganda a favore o contro qualcuno, anche queste di origine interna o straniera; l’uso delle piattaforme da parte di politici di primissimo piano per diffondere disinformazione sul processo elettorale e il suo esito. In alcuni casi le misure hanno funzionato decentemente, in altri meno. Ma di sicuro vedere il profilo Twitter del presidente Trump infarcito di avvisi che riducevano visibilità e credibilità ai tweet è stato un punto di svolta.
Comunque si giudichi questo sforzo (e le valutazioni possono essere diverse), resta emblematico della difficoltà per le piattaforme di gestire i propri ecosistemi su una scala così vasta e in situazioni così tese. Al punto che molti degli interventi presi hanno di fatto modificato la natura originaria delle piattaforme (altri potrebbero osservare che invece di modificarla l’hanno svelata). Se la gestione dell’emergenza è parzialmente riuscita (o comunque è andata meno peggio di come ci si aspettava dopo il 2016), la domanda che ci si pone è: possono le piattaforme ripensare più in profondità, e fuori dall’emergenza, alcuni dei loro meccanismi? O la gestione dell’emergenza diverrà la loro norma(lità)?

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