CANNES 62 – "Il profeta'. Incontro con Jacques Audiard

Il primo dei film francesi in concorso è un’incursione durissima, violenta ed estatica nell’universo carcerario e nel milieu criminale. Un film che sembra vivere di un doppio sguardo e una doppia anima e che deve parte del suo fascino anche all’intensità degli interpreti. Un resoconto della conferenza stampa

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Un prophète, quinto lungometraggio di Jacques Audiard, è il primo dei film francesi in concorso e si tratta di una vera e proprio scossa elettrica, che fa impennare all’improvviso il livello di una selezione che sinora non si era mostrata eccezionale. Un’incursione durissima, avvincente nell’universo carcerario e nel milieu criminale e che deve parte del suo fascino anche all’intensità degli interpreti. Alla conferenza stampa, molto attesa, hanno preso parte il regsita, i protagonisti Tahar Rahim e Niels Arestrup (un grandioso Cesar Luciani, boss corso), gli sceneggiatori Abdel Raouf Dafri, Thomas Bidegail e Nicolas Peufaillit, i produttori Pascal Caucheteaux e Marco Cherqui.
 
Mr. Adiaurd, non è la prima volta che nei suoi film affronta storie di crimine. Ma qui l’attenzione per il mondo della malavita, per i suoi codici, sembra molto più pressante. In particolare da cosa deriva questo suo interesse per il milieu corso. E come mai ha scelto, per il suo film, un titolo così misterioso?
Quel che posso dire è che non avevo intenzione di lanciarmi in un’analisi culturale e sociologica del milieu corso. Quel che m’interessava era ragionare su un milieu mafioso fortemente strutturato e che potesse avere una presenza forte, riconosciuta all’interno di un carcere. Si sarebbe potuto trattare di serbi o baschi. Ciò che m’interessava, in altri termini, era descrivere un universo chiuso, in qualche modo impenetrabile. E, inoltre, raccontare le reazioni delle vecchie generazioni criminali di fronte alla pressione di una nuova generazione, che parla un’altra lingua, che è cresciuta con diverse abitudini e maniere. Per quanto riguarda il titolo, Un prophète, non c’è alcun riferimento religioso. Si tratta di un titolo ironico: qui il profeta è colui che annuncia la venuta di un nuovo tipo di criminale. Tahar incarna un nuovo criminale, un essere intelligente e angelico al tempo stesso.
 
Nel suo film ci sono scene estremamente crude e una descrizione precisa delle dinamiche carcerarie e criminali. Si potrebbe definire un film realista ?
Quando nel cinema francese si affronta l’universo carcerario, occorre porsi alcune domande e affrontare degli stereotipi. Il primo di questi è il documentario, ma non era questa la strada che m’interessava. Il secondo ostacolo è costitituito dall’immagine del carcere che viene fuori dalle serie americane: e in questo caso si tratta di stereotipi che non appartengono alla nostra cultura. Inoltre, in Francia, quando si parla di carcere, si ha in sempre in testa il modello dei romanzi e dei film di Josè Giovanni, ma si tratta di un immaginario troppo poco contemporaneo. Va detto, inoltre, che, non essendo possibile girare in un carcere in attività, abbiamo dovuto ricostruire gli ambienti. Si è trattato di un lavoro scenografico estremamente importante. Abbiamo riadattato una zona industriale di Gennevilliers. A poco a poco, grazie al lavoro di Michel Barthélémy, davanti ai nostri ha cominciato a prender forma il carcere e da lì il film intero. Il realismo è qui, è frutto di questo lavoro.
 
Mr. Rahim, qual è stato il suo approccio a un personaggio così complesso come quello di Malik ?
Innanzitutto si è trattato di un lavoro di studio e ricerca. Mi sono concentrato sui documentari, sui vecchi film dedicati al milieu. Ma mi sono reso conto ben presto che non mi sarei potuto limitare a questo. C’era bisogno di ripartire dall’inizio, creare dal nulla un personaggio vero, reale. E’ stata questa l’impresa più difficile.
 
Mr. Arestrup, invece lei come ha lavorato sul suo personaggio e soprattutto sulla lingua corsa ?
La lingua corsa era davvero molto distante dalla mia cultura. Quando ho incontrato Jacques Audiard durante il casting, gli ho chiesto se era davvero sicuro di affidarmi questo ruolo, tenuto conto delle mie origini. Ho lavorato a lungo con un insegnante privato. E’ stato un lavoro di mesi. Non si trattava solo di apprendere le parole. Occorreva imparare anche la musicalità della lingua, occorreva acquisire la sicurezza necessaria per sentirmi libero, padrone del personaggio. Mi sono lasciato guidare e accompagnare da Jacques Audiard. E’ stata un’esperienza bellissima, ma al tempo stesso dura, complessa. In ogni caso un’esperienza straordinaria. Ho la consapevolezza di aver lavorato con un grande direttore d’attori.    
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    CANNES 62 – "Il profeta'. Incontro con Jacques Audiard

    jacques audiard

    Il primo dei film francesi in concorso è un’incursione durissima, violenta ed estatica nell’universo carcerario e nel milieu criminale. Un film che sembra vivere di un doppio sguardo e una doppia anima e che deve parte del suo fascino anche all’intensità degli interpreti. Un resoconto della conferenza stampa

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    jacques audiardUn prophète, quinto lungometraggio di Jacques Audiard, è il primo dei film francesi in concorso e si tratta di una vera e proprio scossa elettrica, che fa impennare all’improvviso il livello di una selezione che sinora non si era mostrata eccezionale. Un’incursione durissima, avvincente nell’universo carcerario e nel milieu criminale e che deve parte del suo fascino anche all’intensità degli interpreti. Alla conferenza stampa, molto attesa, hanno preso parte il regsita, i protagonisti Tahar Rahim e Niels Arestrup (un grandioso Cesar Luciani, boss corso), gli sceneggiatori Abdel Raouf Dafri, Thomas Bidegail e Nicolas Peufaillit, i produttori Pascal Caucheteaux e Marco Cherqui.
     
    Mr. Adiaurd, non è la prima volta che nei suoi film affronta storie di crimine. Ma qui l’attenzione per il mondo della malavita, per i suoi codici, sembra molto più pressante. In particolare da cosa deriva questo suo interesse per il milieu corso. E come mai ha scelto, per il suo film, un titolo così misterioso?
    Quel che posso dire è che non avevo intenzione di lanciarmi in un’analisi culturale e sociologica del milieu corso. Quel che m’interessava era ragionare su un milieu mafioso fortemente strutturato e che potesse avere una presenza forte, riconosciuta all’interno di un carcere. Si sarebbe potuto trattare di serbi o baschi. Ciò che m’interessava, in altri termini, era descrivere un universo chiuso, in qualche modo impenetrabile. E, inoltre, raccontare le reazioni delle vecchie generazioni criminali di fronte alla pressione di una nuova generazione, che parla un’altra lingua, che è cresciuta con diverse abitudini e maniere. Per quanto riguarda il titolo, Un prophète, non c’è alcun riferimento religioso. Si tratta di un titolo ironico: qui il profeta è colui che annuncia la venuta di un nuovo tipo di criminale. Tahar incarna un nuovo criminale, un essere intelligente e angelico al tempo stesso.
     
    Nel suo film ci sono scene estremamente crude e una descrizione precisa delle dinamiche carcerarie e criminali. Si potrebbe definire un film realista ?
    Quando nel cinema francese si affronta l’universo carcerario, occorre porsi alcune domande e affrontare degli stereotipi. Il primo di questi è il documentario, ma non era questa la strada che m’interessava. Il secondo ostacolo è costitituito dall’immagine del carcere che viene fuori dalle serie americane: e in questo caso si tratta di stereotipi che non appartengono alla nostra cultura. Inoltre, in Francia, quando si parla di carcere, si ha in sempre in testa il modello dei romanzi e dei film di Josè Giovanni, ma si tratta di un immaginario troppo poco contemporaneo. Va detto, inoltre, che, non essendo possibile girare in un carcere in attività, abbiamo dovuto ricostruire gli ambienti. Si è trattato di un lavoro scenografico estremamente importante. Abbiamo riadattato una zona industriale di Gennevilliers. A poco a poco, grazie al lavoro di Michel Barthélémy, davanti ai nostri ha cominciato a prender forma il carcere e da lì il film intero. Il realismo è qui, è frutto di questo lavoro.
     
    Mr. Rahim, qual è stato il suo approccio a un personaggio così complesso come quello di Malik ?
    Innanzitutto si è trattato di un lavoro di studio e ricerca. Mi sono concentrato sui documentari, sui vecchi film dedicati al milieu. Ma mi sono reso conto ben presto che non mi sarei potuto limitare a questo. C’era bisogno di ripartire dall’inizio, creare dal nulla un personaggio vero, reale. E’ stata questa l’impresa più difficile.
     
    Mr. Arestrup, invece lei come ha lavorato sul suo personaggio e soprattutto sulla lingua corsa ?
    La lingua corsa era davvero molto distante dalla mia cultura. Quando ho incontrato Jacques Audiard durante il casting, gli ho chiesto se era davvero sicuro di affidarmi questo ruolo, tenuto conto delle mie origini. Ho lavorato a lungo con un insegnante privato. E’ stato un lavoro di mesi. Non si trattava solo di apprendere le parole. Occorreva imparare anche la musicalità della lingua, occorreva acquisire la sicurezza necessaria per sentirmi libero, padrone del personaggio. Mi sono lasciato guidare e accompagnare da Jacques Audiard. E’ stata un’esperienza bellissima, ma al tempo stesso dura, complessa. In ogni caso un’esperienza straordinaria. Ho la consapevolezza di aver lavorato con un grande direttore d’attori.    
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