Capone, di Josh Trank

La vita di Al Capone con le immagini dei sogni che diventano come demoni. Il cinema di Trank sbaglia completamente la mira e Tom Hardy resta immobilizzato dalla sua stessa creazione.

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L’ultimo anno della vita di Al Capone prima della morte nel 1947 a 48 anni. Il celebre gangster è ormai in preda alla demenza e vive circondato dalla sua ombra. La sua lussuosa villa è una specie di prigione. I suo ricordi sono continuo motivo di tormento. Ma ce ne sta uno soprattutto che lo ossessiona; non si ricorda infatti dove ha nascosto il tesoro di 10 milioni di dollari.

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Chissà perché per portare sullo schermo Al Capone c’era bisogno di un make-up così vistoso. Tom Hardy non se ne riesce a liberare come aveva fatto in parte Robert DeNiro in The Untouchables e soprattutto Rod Steiger in Al Capone e Ben Gazzara in Quella sporca ultima notte. Anzi, qui diventa prigioniero del suo stesso personaggio. Recita soprattutto con gli occhi dato che nell’ultima parte del film resta praticamente muto. E lo sguardo di Trunk insiste sui suoi tic da Actors Studio vecchia maniera, esaspera la sua gestualità e le sue debolezze come nelle scene in cui si fa i bisogni addosso.

L’idea di Trank, anche sceneggiatore, era di mostrare la sua stessa vita come un film di cui lui è il primo spettatore. Il boss è un miscuglio tra un fumetto, un personaggio di un manga giapponese e l’emanazione di un incubo cronenberghiano. Il cineasta però perde quell’immediatezza del suo brillante esordio di Chronicle e il suo cinema è immobilizzato come in Fantastic 4.

Capone calca la mano, spinge l’acceleratore su una decadenza malata e grottesca. Le ‘visioni’ tormentano il protagonista. Già si vede dallo sguardo in macchina di Al Capone con il sigaro in bocca. Poi viene investito dalle immagini di Il Mago di Oz, proprio come avveniva ad Howard Hughes/Leonardo DiCaprio in The Aviator. Da quel momento la soggettiva, mentale più che visiva, del protagonista diventa la traccia più ricorrente. Ma è anche la forzatura più insistita. Trank si spinge nelle zone di un cinema che non sembra essere nelle sue corde. Disperde anche momenti di conflitto familiare come nella scena della litigata in cui lui sputa in faccia alla moglie (buona la prova di Linda Cardellini) e lei lo fa cadere a terra dopo averlo schiaffeggiato. Poi ci sono i sogni. La festa poi il vuoto. Quindi il glorioso passato poi l’arresto nel 1931 per evasione fiscale. Louis Armstrong che suona, poi la camminata allucinata in mezzo ai cadaveri e la sparatoria per strada. In più con deviazioni d’horror d’autore con Matt Dillon che si cava gli occhi con un coltello. La carne e il sangue, ancora Cronenberg.

Forse Capone è stato un progetto tanto ambizioso quanto sofferto. Il cinema di Trank è imprigionato dalla sua stessa voglia di strafare, probabilmente per recuperare l’estro perduto di Chronicle. Il suo cinema è proprio come Capone. Invadente e immobile. Ogni tanto l’ancora di salvezza sembra sempre The Aviator. Peccato che è la strada di uno dei peggiori film di Scorsese. Se DiCaprio però ogni tanto volava in alto, qui Tom Hardy sprofonda. Il suo italiano (“Serpente, ti vedo”) rischia una caricatura al limite della parodia.

 

Titolo originale: id.
Regia: Josh Trank
Interpreti: Tom Hardy, Linda Cardellini, Jack Lowden, Noel Fisher, Kyle MacLachlan, Matt Dillon
Durata: 103′
Origine: USA, 2020

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
1.8

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.57 (23 voti)
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