Conspiracy – La cospirazione, di Shintaro Shimosawa

Shintaro Shimosawa sceglie l’abbraccio da manuale del genere per descrivere la parabola della caduta di Josh Duhamel come destino inevitabile di una società svuotata di senso dall’etica del successo

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Ha smarrito la via Ben Cahill, quando a contare è solo il risultato e non i più i mezzi con i quali viene raggiunto, la giustizia sprofonda in una condizione incerta. Nella sua corsa a folle velocità verso la scalata sociale, uno studio legale prestigioso, quello di Al Pacino, nel quale far carriera e, in mano, grazie alla dark lady di Alice Eve, i segreti sporchi per costruire un caso contro l’intoccabile manager di un casa farmaceutica (Anthony Hopkins), l’avvocato interpretato da Josh Duhamel finisce per diventare la pedina sacrificabile in un gioco manovrato dall’indifferenza del denaro.
C’è ben poco da salvare nel trattato moraleggiante sul potere distruttivo della società e sulla degenerazione dell’individuo intrapreso da Conspiracy – La cospirazione, non fosse per la confezione elegante e ricercata di Shintaro Shimosawa, che deve aver di certo letto con riverente attenzione più di un manuale sulla storia del cinema noir. Il produttore di The Grudge, qui alla sua prima volta dietro la macchina da presa, si riappropria dell’idea della città come geografia desolata nella quale immergere la storia e, nell’indifferenza delle strade vuote di una New Orleans illeggibile e desaturata, forse una delle cose migliori del film, sprofonda i volti nella crescente pesantezza dello spessore delle ombre, che finiscono per inghiottire progressivamente la visione, ed insegue in ogni inquadratura, stando sempre ben attento a non lasciare nessun elemento al caso, l’isolamento dei corpi, persi nella sinuosa ineluttabilità del buio e nella soverchiante pesantezza degli interni.
_B7A8978.CR2Ma per quanto possa esser levigato nella sua forma, l’abbraccio da manuale del genere, che non fa alcun mistero di voler guardare alle atmosfere devianti e deviate del noir anni ’80 e ’90, diventa un marchio troppo visibile, troppo invadente perché i suoi demoni possano davvero abitare i corpi, rendendone dubbia la materia. La parabola della caduta descritta dal Ben di Josh Duhamel, come destino inevitabile di una società svuotata di senso dall’etica del successo, rimane un movimento di pura arroganza estetica, sempre troppo preoccupato della sua costruzione, tanto da prosciugare del tutto l’immagine dell’individuo come una cavità vuota che Shintaro Shimosawa ribadisce a gran voce di andar costruendo. Conspiracy finisce per perdersi miseramente in una scrittura labirintica, quella di Simon Boyes e Adam Mason, che, quando non si compromette nella a volte persino imbarazzante spiegazione di stessa, pensa di poter trovare la propria nobilitazione nella gratuità altisonante delle categorie filosofiche che va scomodando, verità, giustizia, nichilismo, bene e male… E allora, suo malgrado, l’unico momento di genuinità viene forse proprio da Al Pacino, sempre più divertito nel ruolo della macchietta di se stesso, qui alle prese con una riverniciatura meno luciferina del Milton de L’avvocato del diavolo, che dopo, aver risposto per le rime, ovviamente a colpi di Shakespeare, alla citazione staliniana messa a segno da Anthony Hopkins, chiede finalmente perdono per la propria teatralità.

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Titolo originale: Misconduct
Regia: Shintaro Shimosawa
Interpreti: Josh Duhamel, Anthony Hopkins, Al Pacino, Alice Eve, Malin Akerman, Julia Stiles
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 106’
Origine: USA, 2016

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