DOCUSFERA #3: Margini di libertà. Bartolomeo Pampaloni racconta Lassù
Docusfera3: “Lassù”, di Bartolomeo Pampaloni. Il regista ha incontrato il pubblico raccontando il suo approccio alle immagini e come il cinema del reale riesce davvero ad intervenire sul reale.
La terza edizione di Docusfera, rassegna sul documentario d’autore italiano, ha avuto inizio questo fine settimana da Sentieri Selvaggi, presentando una serie di ritratti di personaggi “eccentrici”. Dopo il “Solengo” (di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis) ed Enrico Ghezzi (ne Gli ultimi giorni dell’umanità), Lassù porta sullo schermo un eremita, Isravele. Il regista, Bartolomeo Pampaloni, ha incontrato il pubblico (virtualmente) dopo la proiezione del film. Il dibattito si è incentrato sul rapporto che abbiamo oggi con le immagini, mediatrici costanti della nostra esperienza del reale.
Lassù è in realtà un film che, sin dall’inizio, mostra il rapporto contemporaneo che si ha con lo schermo. È come se non potessimo più rapportarci alle cose se non attraverso le immagini. “Noi registi spesso ci rendiamo conto di ciò che abbiamo fatto solo a posteriori”, ammette il regista. “L’immagine è sacra e il racconto si costruisce in funzione delle immagini. Nel mio lavoro Roma Termini, la storia era più importante delle immagini. Mi sono concentrato su queste persone lasciate ai margini ma mi ero sentito che mancava qualcosa da dichiarare. L’immagine del cellulare è sempre un’immagine mediata. La lontananza che si crea, questa membrana che viene messa dall’uomo contemporaneo sul reale… Per me in fondo era un po’ l’opposto dell’esperienza diretta di immagini che fa e propone Isravele. Lui è abitato dalle immagini. Mi parlava di sogni che aveva avuto da bambino. Nel film si accenna anche alle visioni che aveva, si parla della luce… Lui “vede”. Questo “vedere” qua è il motivo per cui faccio cinema. La forza del cinema che amo di più è abitare questo spazio che è oltre l’analisi. Quell’oltre lì è ciò che mi interessa.”
L’occhio di Pampaloni si è formato con la pellicola: “i 36 scatti concessi dal rullino richiedono una presenza e una consonanza con il reale che dev’essere piena”, ha spiegato. L’obiettivo può essere molto aggressivo. In inglese il verbo to shoot tradisce questa violenza intrinseca dell’atto. “Quando si tratta del fatto di riprendere, è nel come che sta il senso”, spiega il regista. “Dimenticarsi di guardare mentre si riprende è un pericolo; catturare una realtà che non hai neanche vissuto. Invece, infilare una telecamera per cercare di ampliare l’esperienza di una realtà vissuta – questo è il mio approccio.” Il come ha a che vedere con un “sentire il momento giusto. Quell’esercizio che Cartier Bresson descrive come l’allineamento della testa, del cuore e della realtà che si ha davanti. È questa la mia pratica: capire quando è arrivato il momento giusto in una relazione con una persona per tirare fuori la macchina da presa.”
Lassù è stato frutto di una lunga se non lunghissima gestazione. Il regista voleva proiettarlo nella sacralità della sala ma con le difficoltà del COVID si è dovuto aspettare. La lunga attesa ha permesso però a Pampaloni di riscoprire il suo film, attraverso lo sguardo degli spettatori. In particolare, la proiezione palermitana (città-personaggio del film), ha dato modo alla realtà del documentario di intervenire sul reale. “Qualcosa si è smosso davvero,” ha commentato il regista. “Pizzo Sella è stato il più grande abuso edilizio in Italia. Un parco nazionale svenduto in una notte da Vito Ciancimino. Il film è nato dentro di me quando ho visto quegli scheletri accanto alla montagna. C’è questo forte contrasto che racconta noi, il nostro paese: un luogo abbandonato che si sta cercando di riutilizzare. Un luogo di cui bisogna prendersi cura per renderlo più bello di come era prima.”
L’intervento sul reale agisce anche in funzione di questo personaggio, Isravele, conosciuto da molti palermitani e considerato “un pazzariello, un bonaccione”. La presenza dell’intellighenzia palermitana alla proiezione (professori universitari che si interessano al movimento Art Brut) ha permesso di dare una dignità intellettuale a quest’artista solitario, fino a quel momento incompreso.
Se Roma Termini è un’opera più apertamente politica rispetto a Lassù, il discorso sociale che questo film si occupa di lanciare lega al concetto di politica quello della spiritualità, mostrando quanto le due cose siano realmente connesse tra loro. “Nel film, nel momento in cui crolla Santa Rosalia sono presenti il vescovo e il sindaco… Penso sia il segno di una spiritualità vera e vissuta quello di diventare un atto politico. Non sentirsi integrati con la maggioranza, con i gruppi dominanti, con il potere. Dai margini si capisce meglio che dal centro.”
Un personaggio “alieno” come Isravele, come i personaggi di Roma Termini, raccontano proprio questo margine – forse, autentico riflesso della posizione del regista proprio rispetto al cinema. Polemico nei confronti dell’establishment, Pampaloni lavora ormai da anni nel mondo del cinema. Dopo la rottura con il Centro Sperimentale, Roma Termini è stato un atto di rivolta e di autodeterminazione cinematografica. Il regista è allora passato a raccontare le diverse difficoltà di produzione. “Vorrei provare a cambiare il modo in cui faccio i film. Roma Termini l’ho realizzato in maniera completamente solitaria e anarchica. Con Lassù ho voluto aspettare i bandi, “fare il bravo ragazzo”. Non ho trovato un giovamento. Se vi sembro arrogante, mi scuso, ma davvero questa è la mia esperienza. Non non mi sono sentito arricchito ma solo penalizzato dal circuito produttivo. I film che faccio costano davvero poco. Il consulente al montaggio, lo story editor, etc. Non mi sono sentito arricchito da queste figure ma solo penalizzato dalla lentezza, dalle difficoltà di un sistema che ti obbliga a regimentarti in qualche modo.”
Pampaloni ha concluso parlando delle sue aspirazioni future nel mondo delle immagini. “Ora vorrei fare un altro passo. Non più rimanere nel documentario ma in un margine che tocchi la fiction; partendo, però, dalle mie modalità di documentarista. Quindi avere una troupe ridotta, lavorare a spezzoni, essere in tre sul set; scrivere ma essere anche disposti a lasciare spazio a ciò che succede. Finché rimani in questo ambito del documentario non acquisisci potere produttivo e questo per un regista è un problema. Dal terzo film devono conoscerti. È molto complicato a livello lavorativo… Vediamo, non lo so, ci provo stavolta!”