Dove finisce un corpo? Gli Swans a Foligno

Più che un concerto, una cerimonia di catarsi collettiva alla ricerca del divino, pienamente in linea con il percorso di una delle band più influenti della storia del rock: gli Swans a Foligno

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“Ancora oggi sono totalmente sconcertato dal fatto di esistere. Non ha alcun senso per me che io sia qui a respirare o che questo momento sia appena passato e non ci sia più. Dov’è? Dove mi trovo in questo momento? La grande domanda è: esisto davvero?”

 

Michael Gira in Where Does a Body End? (2019) di Marco Porsia

Le pareti dell’Auditorium San Domenico di Foligno sono frastagliate di affreschi. Quelli che rimangono. Il convento, fondato nel XIV secolo, è stato più volte sottratto al controllo dei domenicani. Nel corso del 1800 la chiesa viene soppressa, diventando un dormitorio per le truppe dirette a Roma, una stalla, una legnaia, una palestra, un auditorium. Sembra un segno, allora, che sia proprio The Beggar, pezzo tratto dall’omonimo album uscito a giugno, ad aprire il concerto del 10 novembre scorso. Il mendicante torna all’altare dove è stato sacrificato, stavolta stufo di leccare lo sputo che gli cade accanto. I lampi del cielo penetrano dalle alte finestre. I tuoni, invece, vengono assorbiti dal maelstrom della musica.

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Difficile lasciarsi andare alla corrente ancorati alle poltroncine. Ecco, allora, che l’anima punk del gruppo fondato nel 1982 a New York riprende fuoco. Quando parte il primo applauso, Michael Gira invita il pubblico ad alzarsi e avvicinarsi al palco. Ringhia in faccia a chi rifiuta il dono della prossimità tirando fuori il telefono per riprendere. È necessario attaccarsi all’estasi del qui e ora per vedere quell’attimo sparire insieme a noi stessi. Lo sciamano (“I’m a body channeling spirit”) alza la mano aperta al cielo, lo sguardo del pubblico catturato nel suo palmo. Il canale si apre. Il telo nero che fa da sfondo alla band acquista sempre più profondità. Un insetto, volando, entra in un fascio di luce bianco. Per un attimo è una stella distante eoni. Un urlo cosmico ci investe.

Il primo impatto con il suono degli Swans (per lungo tempo, il loro nome è stato preceduto dalla reputazione di band più rumorosa al mondo) può sembrare un frontale con un muro. Nel ripetersi ossessivo di questo impatto, qualcosa di soave e iridescente penetra nelle crepe formatesi. Il rumore è tutt’altro che un ostacolo in questo processo. Ne è il catalizzatore. Fratello del silenzio, è paradossale, allo stesso tempo vuoto e denso. Come un abisso può minacciarci ricambiando il nostro sguardo per poi farsi crogiolo di tutto ciò che può essere (come ricorda Ben Watson, la Grosse Fuge di Beethoven veniva considerata rumore dai suoi contemporanei). È una porta contemporaneamente aperta e chiusa. Abbandonandosi completamente tra le spire del rumore, ci si ritrova dall’altra parte della serratura.

Così, i confini diventano una soglia. Hahn, Pravdica, Puleo, Mullins e Schechter (rispettivamente e non solo lap steel, chitarra, batteria, percussioni e basso) diventano loro stessi strumenti suonati dai gesti del direttore d’orchestra Gira. D’altronde l’intera discografia degli Swans può essere considerata come un percorso di catarsi. Lo si può ripercorrere (fino al 2019) nel meraviglioso documentario Where Does a Body End? diretto da Marco Porsia. Le prime parole del film, pronunciate da Gira sono programmatiche: “Dove finisce un corpo? Non finisce in realtà, vero? È poroso e siamo completamente interconnessi col mondo attorno a noi”. Un’interconnessione sotto il segno della dissipazione, della distruzione creatrice del mondo. La musica degli Swans replica questo processo, con ritmi circolari e ritornanti come un serpente che divora sé stesso. Il corpo di Gira si pone al centro di questo processo, allo stesso tempo diventa l’inerme agnello sacrificale trapassato dalla musica e un demone che ci scartavetra i timpani. Guidati da un mantra attraversiamo le nostre lacerazioni e ci proiettiamo al di fuori di noi stessi, alla ricerca del divino. Dove sarà? In una nave bianca in fiamme, nel sapore delle sue labbra, nel sole che scopa l’alba, nel sangue dei cigni…

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