"Edut (Testimony)", di Shlomi Elkabetz (Giornate degli autori)

Un secolo circa. La durata del conflitto fra palestinesi e israeliani. Shlomi Elkabetz avrebbe potuto fare del suo film un semplice documentario, perché l’intenzione non è quella di schierarsi, semplicemente di esporre dei fatti. Invece sceglie di far recitare le storie ad attori professionisti. I resoconti si susseguono atroci. E alla fine di ogni racconto l’attore guarda fisso in camera per qualche secondo, come se fissasse negli occhi una giuria immaginaria e aspettasse una reazione

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Un secolo circa. La durata del conflitto fra palestinesi e israeliani. Agli albori del ventesimo secolo, a seguito
della decimazione dell’impero ottomano, nacque come scontro politico fra l’intero mondo arabo e Israele. Successivamente il mondo arabo si è ristretto alla Palestina. E quando Israele è diventato uno stato, “solo” nel 1947, per merito e volere delle Nazioni Unite, ciò non è bastato a far cessare l’odio fra i due popoli. Perché la guerra continua persistente, cieca e violenta, per quel pezzo di terra rivendicato da entrambe le fazioni.
Argomenti di questa portata non smettono di scioccare; non importa quanto lontano dal nostro immaginario siano, quanto poca sia la nostra percezione a riguardo. Basta un flash, un racconto e ci sei dentro testa e stomaco.
Edut (Testimony) è un’antologia di racconti, testimonianze raccolte da protagonisti diretti, gente comune, donne, giovani, adulti; civili e ufficiali. Palestinesi, israeliani. La paura non guarda in faccia nessuno. La disputa coinvolge generazioni che a stento ne comprendono il significato più puro.
Shlomi Elkabetz avrebbe potuto fare del suo film un semplice documentario, perché l’intenzione non è quella di schierarsi, semplicemente di esporre dei fatti. Invece sceglie di far recitare le storie ad attori professionisti. Ognuno dei protagonisti si presenta di fronte alla cinepresa come questa fosse una giura attenta ed invisibile. Sullo sfondo di paesaggi che sembrano essere congelati nel tempo. Le parole escono quasi prive di sentimento, come si parlasse di due amici che si incontrano a cena per caso. Non serve eccessivo trasporto per far arrivare il messaggio. Le parole sono chiare, il contenuto è agghiacciante, devastante come uno tsunami. Ma sembra che ognuno preservi dentro se stesso, in un anfratto ben scavato e nascosto, la potenza straripante delle sensazioni che derivano dal riaffiorare di certi ricordi. I posti di blocco, il coprifuoco. Mostrare la carta d’identità equivale a consegnarti alla indifferente brutalità del caso. Perché, come dice un giovane ufficiale, la buona volontà all’inizio c’è. Ma dopo mesi, anni di turni sfiancanti passati a controllare persone e documenti, mancano le forze, la lucidità; cresce l’indifferenza. E si crede di poter decidere vita e morte di chiunque.
I resoconti si susseguono atroci. E alla fine di ogni racconto l’attore guarda fisso in camera per qualche secondo. Come fissasse negli occhi quella giuria immaginaria e aspettasse una reazione. Poi, prima di passare alla storia successiva, un piccolo stacco e l’inquadratura di un paesaggio. Pacifico, silenzioso, incurante di ciò che davvero sta succedendo. Come quella giuria.
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