Efebo d’oro 2019 – Aftermath: Mike Hoolboom a Palermo
Il premio Nuovi Linguaggi-Città di Palermo va al cineasta sperimentale canadese di Aftermath (2018), puzzle di ritratti di Fats Waller, Jackson Pollock, Frida Kahlo e Janieta Eyre
L’Efebo d’oro assegna il premio Nuovi Linguaggi-Città di Palermo a Mike Hoolboom, nato a Toronto nel 1959 ed in attività nel cinema sperimentale sin dalla prima metà degli anni 80. Da quando nel 1989 ha scoperto di essere sieropositivo, il regista canadese ha intensificato la propria produzione e diversificato il proprio rapporto con l’arte cinematografica esplorando linguaggi eterogenei.
Tra le varie opere presentate nella rassegna palermitana Aftermath (2018) è quella che maggiormente ne trasmette i fondamenti poetici e filosofici riguardo lo statuto dell’immagine cinematografica e le distorsioni percettive nella cultura di massa. Diviso in quattro parti nettamente distinte tra loro che corrispondono a quattro mini biografie (o meglio mini epitaffi) di Fats Waller, Jackson Pollock, Janieta Eyre e Frida Kahlo, il video-puzzle si affida ad animazione, found footage, materiale d’archivio e riprese originali create per l’occasione.
Per il segmento di Fats Waller ci si affida alle testimonianze dei familiari mentre sulle note jazz scorrono immagini d’epoca (vi sono clip tratte dal musical Stormy Weather) miste a quelle contemporanee: il razzismo verso i neri attraversa le epoche e sembra avere mutato intensità e forma di espressione. La parte di Jackson Pollock è interamente occupata dal documentario in 16 mm di Hans Namuth Jackson Pollock 51 (1952) in cui vediamo l’artista al lavoro e poi alla prese con la sua prima bottiglia di whisky dopo due anni di astinenza (il pittore morirà pochi anni dopo per un incidente d’auto dovuto all’alcol). Per la parte dedicata a Janieta Eyre (unica ancora in vita) vediamo uno dei primi film (Rehearsals mai mostrato in pubblico) in cui il corpo della fotografa è soggetto a diverse pose, si sdoppia modificandosi in relazione al suo contatto con l’osservatore: la vediamo cadavere, nell’atto di suicidarsi o in sdoppiamenti bizzarri con in mano un rasoio. Infine la sezione dedicata a Frida Kahlo riporta alcuni aforismi e note biografiche della pittrice messicana durante lo scorrere di immagini in cui alcune attrici la impersonano in una alternanza di colori accesi e suoni evocativi: l’incidente in tram che la costringe giovanissima ad una serie infinita di operazioni, il rapporto conflittuale con Diego Rivera, l’impegno politico e la relazione con Trotsky, infine la morte come una liberazione.
Il filo invisibile che lega le quattro storie è quello di un artista di fronte alle difficoltà dell’esistenza (l’umiliazione del razzismo, la dipendenza da sostanze, il rapporto conflittuale con il proprio corpo e il sesso, la tendenza all’autolesionismo) e di fronte al suo destino di mortalità. Ogni esistenza sembra volere insegnare qualcosa: la gioia di resistere alle ingiustizie del mondo, la forza rivoluzionaria all’interno di un contesto sociale reazionario, l’importanza del gesto pittorico come atto creativo/distruttivo, la possibilità di sopravvivere ai demoni interiori abbracciando il proprio lato oscuro. Proprio il segmento conclusivo, quello dedicato a Frida Kahlo ha una particolare forza emozionale: vediamo l’immagine della pittrice continuamente riprodotta e imitata e, in questa serialità quasi compulsiva, che non richiede né di essere capita o spiegata, risiede una sorta di immortalità. Sentiamo Frida esclamare la famosa frase sul letto di morte (“Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai più.”) mentre il fluire stesso dell’immagini avverte che sarà impossibile dimenticarsi e dimenticare.
In bilico tra passato e presente, vita e morte, Aftermath è un collage riuscito che afferma la vendetta dell’arte sulla caducità delle vite terrene. Una foto, un quadro, una nota di piano, una breve sequenza di musica ed immagini strappano al buio qualche barlume di eternità.