Father Stu, di Rosalind Ross

Vorrebbe articolare un inno alla spiritualità e al potere redentivo della fede cristiana, ma non appena rivela la sua natura pedagogica, fa scadere il racconto nel paternalismo più becero. Su Netflix

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L’ultima cosa di cui ho bisogno adesso è deludere un altro padre” sentiamo dire a Stuart (Mark Wahlberg) ad un prete nel pieno della confessione. Questa frase, pronunciata un attimo prima della conversione spirituale a cui andrà incontro di lì a breve il personaggio, rappresenta non solo lo spartiacque narrativo (e soprattutto simbolico) di Father Stu, ma sintetizza il cuore stesso della crisi che sta attraversando – e che continuerà ad attraversare – la vita dell’uomo, gettando luce al tempo stesso su quell’immagine “paterna” verso la quale proietterà la sua futura esistenza da prete – e quindi da “padre spirituale” di ogni cattolico. D’altronde il rapporto che lega Stuart al padre Bill (Mel Gibson) è, a tutti gli effetti, inesistente. E solo la ritrovata fede dal parte del figlio potrà riconfigurare una connessione tra i due, in modo da riportarli sul sentiero di una riconciliazione di stampo apertamente cristiano.

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Approcciarsi alla storia di questo Father Stu equivale quasi ad un indottrinamento: sulla fede, sulla capacità (o necessità, sembra suggerirci il film) di neutralizzare le crisi quotidiane in una visione ecclesiastica della vita, e sull’importanza di coltivare la propria spiritualità anche in mezzo al disastro. Stuart, in tal senso, è l’emblema delle istanze appena presentate: è un uomo incostante, per nulla pio, che ricerca l’autodistruzione attraverso la boxe, ma un problema di salute lo spinge a lasciare le periferie del Montana, per cercare fortuna ad Hollywood. Qui in California si innamora di una devota cattolica, che lo introdurrà a quei principi cristiani su cui fonderà le basi della sua nuova esistenza clericale, quasi la scoperta della fede si equiparasse ad una vera e propria folgorazione, a cui legare la fondazione di un nuovo ed edificante sistema valoriale. Proprio come accaduto, in spazi extradiegetici, allo stesso Wahlberg.

In questo senso, più che un sermone sulla fede, Father Stu è il manifesto del potere divistico dell’attore. Come tutte le grandi star, qui Wahlberg non seleziona solamente progetti che ne riflettono gli ideali, ma dà mostra di una capacità radicale nell’influenzare le storie a cui prende parte, per renderle uno specchio della sua stessa intimità.

È logico, allora, che il percorso verso la redenzione di Stuart richiami, a conti fatti, il vissuto di colui che lo incarna sullo schermo. Ma se ad un livello simbolico il film mantiene salda la rotta, è nel momento in cui inizia a comunicare i suoi principi cattolici che il racconto scade nella mera catechizzazione. Al punto che non solo in Father Stu ogni atto procede a compartimenti stagni, come se non ci fosse continuità (soprattutto tematica) tra le varie sezioni dell’opera, ma l’unico elemento che avrebbe permesso al lungometraggio di rimanere coeso e focalizzato sui temi che lo contraddistinguono (ovvero la ri-connessione filiale/paterna) scade anch’esso nell’ennesimo predicozzo paternalistico. Quando invece bastava porre sullo stesso piano due anime diverse e asimmetriche. E trovare nella complicità padre/figlio un’immagine sincera di redenzione. Al di là di qualsiasi pedagogismo.

 

Titolo originale: id.
Regia: Rosalind Ross
Interpreti: Mark Wahlberg, Mel Gibson, Jacki Weaver, Teresa Ruiz, Malcom McDowell, Annet Mahendru, Cody Fern, Winter Ave Zoli
Distribuzione: Netflix
Durata: 124′
Origine: USA, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2
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