FESTIVAL DI ROMA 2013 – Au bonheur des ogres (Il paradiso degli orchi), di Nicolas Bary (Fuori Concorso)


In una trama letteralmente esplosiva, Nicolas Bary riesce a tenere la temperatura costante come in un’incubatrice. Il Malaussène di Raphael Personnaz è ridotto a una macchietta colorata con l'aerografo: investito accidentalmente da spruzzate di inadeguatezza o folate di umorismo ventilato da Bérénice Bejo, mentre l'indecisione di toni si risolve nella carineria diffusa

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"Un uomo che indossa un simile pigiama non può aver commesso un omicidio", chiosa un poliziotto di fronte alla discutibile tenuta da casa di Raphael Personnaz, che di giorno fa il “controllore tecnico” in un grande magazzino e di notte dorme tra due guanciali di cui almeno uno appartiene al fratellastro. La questione della credibilità è tra le tante, mai troppo urgenti, sollevate da quest’operetta innocua, che (in)trattiene per inerzia un minimondo eccessivamente calcolato per suscitare parossismo e troppo esile per innescare immedesimazione, paura del buio o calore da colore. Nel sovraffollato ma mestamente apparecchiato (a scatole cinesi) appartamento su due piani, la sorellastra maggiore di Malaussène si copre il ventre gravido col maglione di lana, ma pure il nipote imprevisto troverà il suo posticino su misura nella cassettiera.

Case scoperchiate come set sitcomici spogliati di battute fulminanti: pare ossessionato dal dover tappare i buchi, il giovane regista Nicolas Bary investito dall’adattamento cinematografico di Pennac come un gatto in autostrada. In una trama letteralmente esplosiva riesce a tenere la temperatura costante come in un’incubatrice. Il capro espiatorio, figura letteraria di luminosa immediatezza, è qui strapazzato come un pupo di plastica, ridotto a una macchietta colorata con l’aerografo: piacente e sciapito, il Malaussène di Personnaz viene investito accidentalmente da qualche spruzzata di inadeguatezza, mentre osserva il mondo da un oblò (la lavanderia automatica popolata da tipi umani altrettanto automatici) e ci annoia un po’. Viene raggiunto da folate sporadiche di umorismo ventilato da Bérénice Bejo, che costretta nei panni limitanti della giornalista sexy col cervello gli mette in mano un mazzolin di fiori e lo fotografa in mutande per aggiungerlo alla collezione dei suoi amanti in polaroid. Nel frattempo il suo posto di lavoro è minacciato dall’esplosione di ordigni favolistici, che sospendono il tempo per il momento di un bacio consumato all’ombra di giraffe volanti e altre cartoonesche escrescenze à la Jeunet.

Cara grazia (pure troppa: sullo sfondo c’è una vicenda nera di bimbi spariti nel nulla, che nell’inutile ipertrofia scenografica scompare), Il paradiso degli orchi lavora sul programmatico accumulo di situazioni giallorosa per disinnescarle senza il ritmo di un Cluedo. E la palpabile indecisione di toni & pubblico si risolve nella mesta scodella di una carineria diffusa. Qualcuno direbbe che è “così francese”, intanto gli orchi stanno a guardare. 

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