Harvest Moon, di Amarsalkhan Baljinnyam
Il cinema dei buoni e sinceri sentimenti esiste in un racconto basico di formazione e riduzione alla semplicità. Dal Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina in corso a Milano
Il cinema dei buoni e sinceri sentimenti esiste e se esiste si trova da quelle parti nascoste agli occhi del mondo dove non arriva il segnale della tecnologia telefonica e dove ancora si falcia a mano senza l’aiuto di attrezzature meccaniche. Harvest moon di Amarsalkhan Baljinnyam, qui all’esordio nella regia dopo i suoi trascorsi d’attore e produttore, è ambientato nella provincia più rurale della Mongolia e narra del ritorno a casa di Tulga, un giovane che aveva provato a trasferirsi dalla campagna alla città per trovare lavoro. Il suo improvviso ritorno è dovuto alla malattia del patrigno. Lo assiste fino alla fine e poi si dedica a rimettere in ordine i campi. Nel frattempo dopo un primo scontro che prelude ad un profondo rapporto, stringe amicizia con Tuntuuelei un ragazzino che sa il fatto suo, che governa un gregge e risolve molti problemi a Tulga. Lui sta con i nonni e sente forte il bisogno di un padre e se Tuntuuelei ha eletto Tulga a suo padre elettivo questi non può assolvere al compito infatti anche per Tulga arriva il tempo del ritorno alla sua vita.
Un racconto semplice e naturale che arriva da un oriente che nonostante tutto continua ad essere sconosciuto, da una regione tra le geograficamente più vaste e in modo direttamente proporzionale, altrettanto misteriose.
Il film, in Concorso al FESCAAAL32, si muove tra due storie il cui tema centrale è quello della paternità surrogata, tra due affetti che nulla hanno da invidiare agli affetti biologici. Tulga è figlio di un padre adottivo, Tuntuulei, abbandonato dalla madre e orfano di padre, cerca un riferimento paterno, Tulga a sua volta, non solo sfugge all’affetto del ragazzino, ma nell’incipit sfugge anche ad un possibile amore poiché non accetta la paternità della donna che porta con sé il figlio di un altro.
Se da una parte dunque il racconto costruisce l’attesa per una soluzione e la sceneggiatura sa spiazzare lo spettatore, sotto altro verso i sentimenti, forti e appassionati di Tutntuulei sembrano quasi nutrirsi e diventare spontanei come la luce dentro che illumina i luoghi. Harvest Moon si nutre dunque di questa bellezza luminosa e segreta dei luoghi senza orizzonti e di quella spontaneità commovente che trova il suo apice nella straziante sequenza finale dell’addio tra i due personaggi. Si nutre anche di un mondo interiore dei due personaggi, di una rappresentazione che si avvale di uno spazio che sa diventare protagonista nel raccontare con indispensabile realismo questa favola ì, in fondo, un po’ amara.
Una credibilità che non può essere messa in discussione e una composizione narrativa che sa toccare le corde giuste in questo film che sa essere basico racconto di formazione e riduzione alla semplicità, laddove la genuina caratteristica narrativa sa restituire al racconto una innocenza che spesso si è perduta altrove, un cinema che sa crescere attorno alle proprie tradizioni e ai propri personaggi, isolati e muti come i panorami che dominano quelle vite solitarie in cui esiste il tempo per il pensiero.