Human Flowers of Flesh, di Helena Wittmann

In Concorso a #Locarno75, la regista di DRIFT affronta un viaggio nel tempo scendendo nei fondali marini della Storia, tra riflessione post-coloniale e tempo di esposizione dell’immagine alla luce

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In Drift, rivelazione della Settimana della Critica 2017 e successivamente vincitore del Laceno d’oro, Helena Wittmann misurava lo spazio della distanza sulla superficie delle onde dell’oceano: la stratificazione di volumi sul pelo dell’acqua era in grado di dare una forma vibrante, epidermica, al luogo interiore dove sedimentano i sentimenti, le sensazioni, le nostalgie, i rimpianti. Cinque anni dopo, la regista tedesca affronta la coordinata parallela a quella spaziale, e compie con il suo nuovo, miracoloso film un viaggio nel tempo: ma i segni più marcati del tempo non abitano le superfici, come si potrebbe credere, quanto le dimensioni che si agitano nelle profondità – e così, stavolta Wittmann scende giù, giù, nei fondali marini, i suoi personaggi viaggiano in barca da una meta all’altra, da Marsiglia all’Algeria inseguendo la storia della Legione Straniera, ma la vera peregrinazione è tra quello che si muove ancora sul fondo, dai relitti sul cui metallo il mare ha costruito un nuovo universo, fino al macchinario che pulisce la pavimentazione di una piscina d’albergo.
I been all around the world, don’t nothin’ bother me, cantava Muddy Waters, You know I’ve seen everything baby, everything but the bottom of the sea. Cosa c’entra il blues? Sul ponte della nave si parlano lingue diverse, forse tutte le lingue d’Europa quasi fosse un film di De Oliveira, e si catalogano fiori, fotografie, diapositive, poesie, canti popolari – perdere le coordinate è facile (nonché consigliabile), e a Wittmann pare proprio interessare l’ambiguità dell’immagine anche quando sembra solo una campitura neutra: è un pezzo di cielo o siamo sott’acqua? Sono istantanee o in movimento quegli scorci di foresta dove ad un certo punto, in lontananza, sentiamo addirittura l’eco di un mitragliatore?

Il discorso post-colonialista avvicina Human Flowers of Flesh alle riflessioni da sempre messe in atto dal cinema portoghese, ma la valenza magico-rituale tipica di queste visioni qui sembra davvero far sbocciare (i fiori di carne del titolo?) le immagini dal quadro, come guardare una fotografia restare pian piano impressa sulla pellicola nella camera oscura. Il tempo, di nuovo: il tempo di esposizione della luce sul fondo della materia, della Storia, dello sguardo.
Non è allora un caso se lo stesso Denis Lavant che per Tsai Ming-liang aveva rallentato fino quasi all’apparente immobilità i propri passi per inseguire il walker di Journey to the west, qui diventi invece lui ad essere pedinato tra le vie di Sidi-Bel-Abbes (roccaforte della Legione per 130 anni) dalla protagonista e dalla sua troupe, sorta di evocazione ricercata per tutto il viaggio del film e finalmente palesatasi in questa lettura della Legione Straniera come dimensione sospesa tra la vita e la morte, a metà tra l’Inferno delle dune (un altro tipo di oceano? Wittmann sovrimpone le onde alla sabbia del deserto) e il Paradiso delle fortezze fornite di ogni distrazione per i soldati.
“Sì, siamo dappertutto”, conferma alla donna l’anziano legionario Lavant dalle movenze quasi kinskiane (a conferma dell’afflato inequivocabilmente herzoghiano che attraversa l’intera opera), e sembra davvero un’affermazione che supera i confini di questo spaziotempo per farsi, ancora una volta, dichiarazione di un universo nascosto alla luce del sole di entità, tracce e connessioni viventi che travalicano i secoli e l’apparenza delle cose.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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