I figli di nessuno, di Raffaello Matarazzo

Il melodramma è utilizzato con molta esperienza e spregiudicatezza per un racconto che trova sponda nella ostinata negazione della verità.

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Si alzano i toni del melodramma in questo film del 1951 che ancora una volta, ma con modalità differenti e impreviste vede al lavoro la coppia Nazzari–Sanson. Un dramma che si consuma tra le Alpi Apuane, dove Guido (Amedeo Nazzari) è l’erede di una cava del pregiato marmo. Ma la madre, la contessa Carani (Françoise Rosay), è ancora in vita e con pugno di ferro dirige gli affari di famiglia, affidando la gestione ad Alfonso (Folco Lulli), suo uomo di fiducia e vera serpe, che guiderà, con il suo malefico influsso sulla vecchia contessa, le vite di tutti gli altri personaggi della storia. Guido, contravvenendo ai desideri della madre, è innamorato di Luisa (Yvonne Sanson), avvenente figlia del guardiano della cava. Una serie di eventi allontanerà i due amanti che nel frattempo hanno avuto un figlio che riuscirà a malapena a conoscere i propri genitori.
Vi è un’attenzione particolare in questi anni attorno al cinema del regista romano scomparso nel 1966. Un’attenzione che ha fatto recuperare un profilo trascurato per troppo tempo, fatto di narrazione e passioni e del loro ininterrotto sovrapporsi, che ha sicuramente catturato milioni di spettatori e che come ogni fenomeno di massa non può essere tout court accantonato come qualcosa di inadeguato rispetto ai nuovi assetti culturali o ai ruoli di una cultura che non può badare allo spicciolo sentimentalismo. Una nuova valutazione della cinematografia popolare, di cui Matarazzo è stato esponente di primo piano, è anche necessaria, non solo per una filologia del nostro cinema, ma anche per comprendere l’evoluzione dei costumi che passava, inevitabilmente, proprio tra quelle classi sociali di cui Matarazzo raccontava e si producevano anche in virtù delle contrapposizioni tra i ceti di cui, ad esempio, questo film è piena espressione. Espressione di questa incomprensione dei fenomeni è che questo film, nonostante le aspre critiche ricevute alla sua uscita, ha sbancato al botteghino ed è il 45mo in classifica tra i film italiani che hanno incassato di più.
Matarazzo con il suo cinema d’appendice, immerso in un sempre esuberante sentimentalismo, con I figli di nessuno – terzo film della trilogia formata da Catene del 1949 e Tormento del 1950 – sembra volere infrangere alcune regole se non consolidate almeno maggiormente rispettate all’interno del genere. Massimizzando gli eventi, tanti e tutti drammatici, giocando con le speranze dello spettatore, frustrandone le attese, viola la regola di un lieto fine consolatorio che possa soddisfare quelle attese dentro le quali non sarebbe neppure previsto che il cattivo la faccia franca. Ma qui accade.
I figli di nessuno in realtà ha una storia produttiva complicata e articolata che coinvolge anche la Titanus che l’ha prodotto. Il film prende le mosse dal suo omonimo del 1921, cui seguirà L’angelo bianco, sempre interpretato dalla coppia Nazzari–Sanson del 1943 diretto da Giulio Antamoro e Federico Sinibaldi. Questa terza versione con la regia di Matarazzo recupera il vecchio titolo, ma conferma la coppia degli attori feticcio per il regista.
Il film diventa una specie di magnifica ossessione per i due attori, ma anche per la Titanus che resta al centro di queste vicende produttive. Dall’altra parte vi è l’ossessione amorosa per una storia che nasce dall’omonimo romanzo di Ruggero Rindi pubblicato nel 1908. Matarazzo si fa catalizzatore di queste storie e di questi intrecci che stanno all’origine del film dalla vitalità popolare per una storia pienamente nelle sue corde per la forza delle passioni forti, sempre esclusive e destabilizzanti.

Il tema del melodramma non è che un registro utilizzato con molta esperienza e a volte finemente da Matarazzo nella sua lunga carriera e perfino con autentica spregiudicatezza come accade in questo film. Lo spettatore saprà perfino sorvolare sulle incongruenze e le evidenze trascurate che ben altra direzione avrebbero potuto fare prendere alla storia e ai personaggi. Probabilmente ciò che vi è da chiedersi è cosa abbia questo film, che rispetto ad altri riassumibili nello stesso genere non ha molto di scontato con i suoi inattesi detour, sebbene lavori su intrecci classici e personaggi dai caratteri consueti. Probabilmente lo scenario sul quale l’intera vicenda del tormentato amore tra Guido e Luisa, è quello di una verità ostinatamente negata, di una verità invisibile agli occhi di tutti i protagonisti che per confermare questa negazione si comportano in modo altrettanto negativo rispetto ad altre verità. Il film, dunque, sembra fondarsi e trovare il proprio baricentro sul grande equivoco, costante e indissolubile dalla storia, della verità messa da parte, occultata. In questa reiterata negazione è perfino negata ogni immagine di madre affettuosa, tema cardine del filone. Il personaggio di Yvonne Sanson, l’unico che avrebbe potuto riempire questo vuoto, per gli sviluppi della storia, ha un ruolo quasi marginale, secondario, con una ulteriore occultazione delle dinamiche amorose tra i due divi consolidate nei melodrammi popolari matarazziani.
I figli di nessuno (titolo esplicativo e confermativo di questa ipotesi) del resto sembra costituire il negativo di una storia positiva e parallela che si stia svolgendo da qualche altra parte. Matarazzo racconta una storia in negativo per esaltare il gusto contrario della positiva verità dei fatti ed è in questo scarto che forse il film coglie il segno, sapendo fare di patimenti morali dei suoi personaggi espressione esplicita di una cecità che domina ogni realtà modificata dalla negazione del vero.

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Regia: Raffaello Matarazzo
Interpreti: Amedeo Nazzari, Yvonne Sanson, Françoise Rosay, Folco Lulli, Enrica Dyrell, Enrico Olivieri
Durata: 102’
Origine: Italia, 1951
Genere: melodramma

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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