IFFR – Incontro con i Manetti Bros.

Durante l’incontro con il pubblico hanno raccontato dei loro esordi, della libertà creativa e dell’importanza di crescere in un ambiente libero. Una libertà ottenuta anche diventando produttori

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Quella dei fratelli Manetti rappresenta per l’Italia un’esperienza abbastanza sui generis. Fieri sostenitori di un cinema che parlando un linguaggio popolare non debba per forza rinunciare alla profondità delle tematiche affrontate. La scelta del Rotterdam Film Festival di dedicargli una retrospettiva è per loro una consacrazione. Il primo aspetto che emerge dall’incontro con il pubblico, moderato da Giona Nazzaro, è quello relativo alle loro origini, umane ed artistiche.
“Noi abbiamo avuto la fortuna di crescere in un ambiente artistico”, dice Marco, “nostro padre era un restauratore, anche se la vera appassionata di cinema era nostra madre, che amava soprattutto Hitchcock! Un ambiente creativo e stimolante che ci ha trasmesso il valore più importante, quello delle libertà. Il nostro era un quartiere piccolo borghese, ma dove era facile incontrare attori o produttori grazie alla presenza del Teatro delle Vittorie. Era un incrocio di diverse classi sociali.” E Antonio aggiunge: “Queste radici ci hanno fatto diventare curiosi di molte arti, cinema, letteratura, fumetti, musica. Un insieme di cultura alta e bassa, se così si può dire, che rispecchia la nostra vita ed i nostri lavori.”

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Il loro ingresso nel mondo dell’audiovisivo coincide con un periodo di transizione, quello della nascita delle televisioni commerciali e dei videoclip, modelli decisivi per la formazione del loro stile, orientato a esplorare tra le forme e i linguaggi, a contaminarsi attraverso la scoperta. Ma anche un periodo in cui il cinema italiano cominciava a scendere a compromessi a livello produttivo, per ottenere dei finanziamenti statali vincolati a parametri che rappresentavano una sorta di censura.
Antonio: “Una volta abbiamo rinunciato al progetto per un film per non dover scrivere una cosa falsa. Noi da un certo punto di vista eravamo protetti, ma per arrivare a questo punto, che rappresenta il coronamento di una carriera, ci abbiamo messo tanto tempo. Abbiamo scelto di autoprodurci, all’inizio eravamo conosciuti nell’ambiente ma la solo piano piano il nostro cinema ha avuto un riconoscimento popolare. La verità è che l’Italia è un posto abbastanza particolare. Quando facevamo proposte di un thriller, di uno zombie movie o di fantascienza, erano i generi che altrove dominavano il box office.”

La loro regola è fare film che per primi loro stessi abbiano piacere di vedere. Film spesso a basso budget, riservati ad un nicchia che si è allargata a macchia d’olio. Quello che ha cambiato in meglio il loro approccio cinematografico è Luciano Martino, che gli ha insegnato a diventare produttori di se stessi. “Quella con Luciano, sottolinea Marco, è una relazione complessa, professionale ed artistica. Lui per noi è stato come un secondo padre. Era una persona di straordinaria intelligenza, produttore illuminato e dotato di un’apertura mentale sconfinata.” Ed Antonio: “Siamo diventati dei produttori proprio grazie a lui. L’abbiamo reso ufficiale quando abbiamo fondato la Mompracem (un nome scelto non a caso, in onore di un’isola che rivendicava autonomia ed indipendenza e si opponeva alla colonizzazione britannica). Nei nostri film mischiamo i ruoli, ed adesso siamo talmente abituati che non potremmo fare diversamente.”

I loro nomi vengono spesso associati a quelli di registi degli anni 60 e 70, a cui li accomunano i contenuti, quanto piuttosto a livello di realizzazione, vista la capacità di fare quei film a basso budget che non si riuscivano più a fare, una qualità che Luciano Martino aveva intuito subito.
Marco: “Da questo punto di vista ci ha insegnato molto Zora la vampira, film ad alto budget, prodotto da Verdone e Cecchi Gori. Ecco lì abbiamo capito che il regista ha l’obbligo di divertirsi, cosa che in quel caso è mancata. Abbiamo capito e razionalizzato. È stato come iniziare da capo.”
Antonio: “Insieme a Carlo Macchitella (scomparso lo scorso anno) abbiamo fondato la Mompracem. Lui ci disse, ci lascio liberi, ma alziamo i budget e le aspettative. E così sono nati progetti come Diabolik ed Ammore e Malavita.”

La trilogia dedicata al re del terrore, nome emblematico del primo albo, è infatti la loro sfida più ambiziosa, e presentava almeno due ostacoli da superare: ottenere il beneplacito dell’editore del fumetto e convincere gli appassionati non fosse un remake del cult di Mario Bava, detestato dalle sorella Giussani.
Antonio: “Quando eravamo al lavoro sul primo film non avevamo comunque messo in conto di realizzare un trilogia. Quello che ci sembrava impossibile era raccontare Diabolik senza la sua complice, Eva Kant, per questo abbiamo scelto il numero 3 dove si conoscono e la loro coppia viene formata. Nel terzo film risaliamo invece alle origini di quello che è un personaggio misterioso, nel secondo invece abbiamo privilegiato un l’action.”
Marco: “Per convincere l’editore è stato sufficiente assicurargli la nostra intenzione di essere quanto più possibile fedeli al fumetto. Una cosa che riveste molta importanza sono le musiche, un aspetto mai trascurato perché di estrema importanza narrativa. Per questo la scelta di affidarci a Manuel Agnelli, leader degli Afterhours nel primo episodio, dalle tinte dark. Antonio Diodato con il suo romanticismo classico ci è sembrato perfetto per il secondo, Diabolik – Ginko all’attacco! per il terzo capitolo abbiamo optato per Calibro 35 ed Alan Sorrenti.”
In chiusura dell’incontro una clip del loro prossimo film ambientato in Calabria, US Palmese, una storia di calcio e di vita, con lo stesso sguardo ironico sempre, ormai in marchio di fabbrica.

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