Jours d’été, di Faouzi Bensaïdi

Tra il vecchio e il nuovo mondo, Bensaïdi racconta la società marocchina contemporanea attraverso una rivisitazione dell’opera teatrale Il giardino dei ciliegi, di Anton Čechov. Dal MedFIlm Festival

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Liberamente tratto dall’opera teatrale Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov, Jours d’été racconta la società marocchina contemporanea, tra la globalizzazione e le vecchie tradizioni aristocratiche.

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Il regista Faouzi Bensaïdi riscrive la pièce adattandola al tempo presente, rinunciando alle citazioni onomastiche russe, calando completamente lo spettatore nella realtà marocchina.

Jalila, proprietaria della villa più bella e lussuosa di Tangeri, torna a casa insieme al resto della famiglia, dopo cinque anni di assenza passati a Parigi. Si scopre presto che la tenuta verrà venduta per via dei debiti. A precedere l’atteso ritorno sono una serie di incidenti domestici, divertenti quanto significativi. Nella prima scena la casa viene mostrata invasa dagli animali da fattoria: un’immagine che annuncia chiaramente il fatto che l’abitazione, ormai, non appartiene più a nessuno.

Nonostante l’ambiente sia limitato (seguiamo i personaggi negli interni della casa e negli esterni del giardino), Bensaïdi gioca bene con gli spazi: troviamo più volte diverse azioni nella stessa inquadratura, suddivise semplicemente da un’accurata composizione dell’immagine oppure da elementi architettonici ben posizionati. L’amico di famiglia, Laarbi, parla delle diverse possibilità di vendita a Jalila e al suo compagno, mentre un lavoratore brucia foglie morte dalla parte opposta del muro di cinta. Il simbolismo cecoviano si ritrova in diverse parti del film ma ciò che più sorprende è la fine, che si stacca dal testo originale in modo molto significativo.

Al posto di Firs, il vecchio servitore dimenticato e lasciato solo a morire, a restare nella casa vuota è Laarbi, l’acquirente, figlio di servitori.

Nel testo di Čechov, Firs non poteva trovare posto nel “nuovo mondo”: la sua identità era irrimediabilmente legata alla Storia. Laarbi è invece un personaggio molto più complesso: inizialmente professa che ognuno dovrebbe tenere a mente il proprio ruolo, rimproverando la cameriera che è vestita all’europea come i proprietari; non riesce a dichiararsi alla donna che ama; è intrepido quanto timoroso, moderno quanto all’antica. Ne consegue una critica interessante del Marocco contemporaneo. Per quanto Laarbi si sia allontanato dalle radici, cercando di ricrearsi, il suo destino è lo stesso di Firs, il vecchio servo incapace di seguire il cambiamento dei tempi. Laarbi è intrappolato tra i due mondi: troppo cosciente del passato, troppo incerto sul futuro.

La recitazione è, forse, a tratti tentennante e rallenta il ritmo della narrazione ma la riflessione sociale che Bensaïdi propone è (incredibilmente – perché si rifà ad una tradizione già mangiata e rimangiata) lungimirante quanto problematica.

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