Kanata no Uta, di Kyoshi Sugita

Un film giocato sulla stasi, sui tempi morti, sul confinamento dell’individuo in una realtà inerte. Dove le emozioni scorrono sì lente, ma si insidiano sotto la pelle. VENEZIA80. Giornate degli Autori

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Il dolore della perdita è costante, sottile, immutabile. Per la protagonista di Kanata no Uta, una giovane commessa di nome Haru (An Ogawa) dalla natura semplice e melanconica, la morte della madre ha rappresentato un crocevia, un punto di non ritorno da cui è possibile emergere solo se ci si attacca con forza ai quei singoli istanti che donano un senso di pace nel periodo più oscuro e lacerante della vita. È per questo che, nonostante siano trascorsi diversi anni dalla tragedia, la ragazza non ha mai smesso veramente di pensare al passato, di indugiare su ricordi e sensazioni, che a causa della loro carica emotiva, le consentono di rimanere a galla nell’oceano delle crisi post-traumatiche. Una condizione, questa da lei vissuta nel quotidiano, che la porta ad adottare degli atteggiamenti che possono sì apparire come ossessivo-compulsivi. Ma che in realtà nascondono un desiderio impellente di riscossa. Da materializzare attraverso il contatto con chi, in passato, aveva svolto inconsapevolmente un ruolo importante nel suo lento processo di ripresa.

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Se guardiamo a tutto il cinema di Kyoshi Sugita, giocato sulla rarefazione di emozioni sottintese e solo sussurrate, questo Kanata no Uta appare come una sua sintesi ideale – se non addirittura simbolica. Proprio come i personaggi alienati e traumatizzati di A Song I Remember (2011) e Haruhara-san’s Recorder (2021) anche qui Haru vive il dolore in una condizione di stasi totale. Nulla attorno a lei sembra muoversi, e il tempo appare come congelato, privo di coordinate che lascino presagire l’avvento di un cambiamento o di un accenno di catarsi. Ma è nel momento in cui rincontra le due persone che con la loro sola presenza l’avevano “salvata” nel suo periodo più buio, cioè il suicidario Tsuyoshi (Hidekazu Mashima) e la sofferente Yukiko (Yuko Nakamura) che la ragazza può finalmente concepire una fantasia di liberazione. Dal trauma, dal passato, e soprattutto da ciò che la confina in una realtà inerte e soffocante.

In piena continuità con le narrazioni precedenti del regista giapponese, ciò che in Kanata no Uta conduce la protagonista sul sentiero della catarsi è proprio il rapporto simbiotico con i dispositivi di riproduzione. Qui, come in tutto il cinema di Sugita, è la relazione che Haru instaura con la videocamera digitale e con il registratore a permetterle di placare le sue ansie più recondite, e di ritrovare un rapporto d’equilibro con il mondo circostante. I due strumenti le consentono di catturare i dettagli di uno spazio, che di volta in volta muta a seconda dell’angolazione – e quindi della prossimità o della distanza – da cui la ragazza osserva il mondo per mezzo della camera. È così che Sugita riesce a trasformare con grande coerenza e precisione un racconto da statico e immutabile in una visione narrativa che contempla per la prima volta un senso di speranza e di purificazione. Ed è proprio qui, allora, che radica per la protagonista la necessità di rifugiarsi nel contatto umano. Perché è rispecchiandosi nelle ferite delle sue “anime gemelle”, di persone a lei affini in quanto condividevano una condizione simile nel pieno della tragedia, che Haru può risanare le loro crisi, portando nel contempo a risoluzione il trauma che da troppo a lungo la sta limitando. E seppur a tratti il film appaia inaccessibile, le emozioni che mette in campo arrivano ad insediarsi lentamente sotto la pelle di chi guarda. Fino a trovare, nel calore di un abbraccio, una direzione in cui infrangere la stasi del mondo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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Il voto dei lettori
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