Venezia 80 – Kanata no Uta. Intervista esclusiva a Kyoshi Sugita
In occasione della presentazione di Kanata no Uta alle Giornate degli autori, abbiamo incontrato a Venezia il regista giapponese, che ci ha parlato del suo ultimo film. Il resoconto dell’intervista
In occasione della presentazione di Kanata no Uta alle Giornate degli Autori dell’80ª edizione del Festival di Venezia, abbiamo incontrato il regista giapponese Kyoshi Sugita, che ci ha parlato del suo ultimo film, degli elementi che cerca di comunicare attraverso le immagini, offrendoci anche un ragionamento sui fenomeni culturali e industriali che stanno attraversando, cambiandolo dall’interno, l’intero settore cinematografico dell’arcipelago. Da questo punto di vista Kanata no Uta appare come una sintesi simbolica del suo intero percorso, e osservare l’opera nei suoi dettagli significa scandagliare il nucleo di temi da sempre caro al cineasta, tra cui il rapporto comunicativo tra i dispositivi di visione e la sensibilità di chi guarda.
Partiamo proprio da qui. Quando rifletto sul tuo cinema, le prime immagini che mi tornato alla mente sono quelle relative a due elementi scenografici, che non solo ricorrono frequentemente nelle tue narrazioni, ma assumono una grande importanza per come si legano ai percorsi catartici dei personaggi: la videocamera digitale e il registratore. Sembra quasi che i tuoi protagonisti, e lo vediamo in opere come A Song I Remember (2011), Haruraha-san’s Recorder (2021) e lo stesso Kanata no Uta, abbiano bisogno di tali dispositivi di riproduzione per placare le proprie ansie e ritrovare un rapporto d’equilibrio con il mondo circostante. Ecco, nel momento in cui lavori sul personaggio, parti da questi elementi? Che importanza assumono questi dispositivi nella definizione dei percorsi narrativi dei protagonisti?
Io credo che questi oggetti abbiano una funzione molto particolare nei miei film, perché contribuiscono a rivelare l’interiorità dei personaggi, un fenomeno che le sole immagini non potrebbe restituirci con la medesima immediatezza. Pensiamo ad esempio alla videocamera: ci sono persone che riprendono da vicino e altre da più lontano, e a seconda dell’angolazione, della distanza dall’oggetto inquadrato e dal modo in cui il personaggio tiene in mano la camera, possiamo capire la sua personalità.
Il potere di questi dispositivi di rivelare ciò che non vediamo, cioè il mondo interiore dell’individuo, ci riconduce ad un altro elemento del suo cinema, che è la connessione tra l’inquietudine dei personaggi e la placidità dei luoghi che li circondano. Proprio Kanata no Uta è un film tutto giocato sulla stasi, sui tempi morti, sul confinamento del personaggio in una realtà che ha perso le proprie coordinate temporali. Vedendo il film, ho avuto la percezione che il mondo esterno, immerso nella sua staticità, riflettesse la sfera dei sentimenti di Haru, come se uno fosse lo specchio dell’altro, quasi ci fosse un legame simbiotico e diretto tra i due. È così?
Si, è vero, tanto che alle variazioni di uno scenario all’interno di una sequenza seguono sempre dei piccoli cambiamenti del personaggio. Io penso che il mio lavoro sia proprio questo: catturare attraverso la camera i dettagli di una scena, che di volta in volta vengono osservati diversamente dalle singole persone che prestano il loro sguardo alla videocamera.
Questa capacità di intrecciare il personaggio con lo spazio ci riporta alle tue esperienze formative. Agli inizi di carriera hai infatti lavorato come aiuto-regista di alcuni dei più grandi autori del cinema giapponese contemporaneo, come Kiyoshi Kurosawa, Shinji Aoyama e Nobuhiro Suwa. Quanto sono stati influenti questi cineasti sullo sviluppo della tua sensibilità artistica? Perché a me sembra che la democratizzazione dei toni tipica dei loro film, cioè il fatto che questi registi trattino emozioni anche opposte tra loro con lo stesso registro – quindi mettendole sul medesimo piano gerarchico – abbia comunque influenzato il modo in cui costruisci le atmosfere delle tue opere. La pensi così?
In realtà ancor prima di aver collaborato con loro, io ammiravo i film di questi registi, li guardavo ossessivamente, per cui ho cercato di adeguarmi alle loro sensibilità nel momento in cui ho realizzato il sogno di lavorare insieme a loro. Però, ad esempio, stando vicino a Kurosawa mi sono reso conto che la sua influenza stesse diventando fin troppo opprimente, mi sembrava pericolosa [ride]. Perciò ho cercato un po’ di separarmi dalla sua sensibilità, anche perché tutti i suoi studenti finiscono per diventare come lui! E l’unico che si è distinto davvero, andando anche oltre lo stile di Kurosawa, è stato proprio Hamaguchi [che ci passa lì di fianco]. Quindi si, loro sono stati comunque importanti.
Ritornando a Kanata no Uta, nel film troviamo forse l’espressione più simbolica di un elemento centrale della tua poetica, cioè la presenza di legami fortemente lenitivi e purificatori. Al punto che Haru, percependo le crisi emotive di Takeshi e Yukiko, cerca di stabilire con loro un contatto diretto, più intimo, in modo da sanare le loro ferite, e trovare di conseguenza la via per portare a risoluzione il trauma della perdita materna che la sta consumando. Ritieni che questa sia una chiave di lettura possibile per quanto riguarda il percorso della protagonista, e per estensione, il film?
Questo che hai appena indicato è un tema a me molto caro. Penso che nella vita tutti attraversiamo questa esperienza della perdita, e ciò che mi interessava qui esplorare era il modo in cui affrontiamo il lutto, motivo per cui i miei personaggi anelano costantemente alla purificazione, da materializzare mediante il contatto umano.
Spostiamo per un attimo lo sguardo all’industria in cui operi. Immagino che tu, in quanto regista indipendente, sia molto legato ai mini-theatre, a quell’insieme di piccoli cinema dislocati lungo l’arcipelago che sin dagli anni ’80 continuano a supportare tutti quei film con poche risorse, che non trovano una collocazione nelle grandi catene dei multiplex. E come ben sai, negli ultimi tempi, soprattutto a partire dalla pandemia, i mini-theatre stanno progressivamente sparendo, compromettendo anche la sostenibilità di un settore nevralgico della cultura cinematografica nipponica. Tu come vivi questa situazione? Ritieni che, a causa della chiusura dei mini-theatre, i film indipendenti giapponesi abbiano in futuro sempre meno possibilità di trovare un pubblico?
Per me sono molto importanti, e proprio mentre parliamo, ci sono mini-theatre in procinto di chiudere. A volte si vedono costretti a cessare le attività anche solo perché non hanno gli adeguati finanziamenti per la manutenzione delle strutture o del proiettore. Ad esempio nei miei film compaiono spesso questi luoghi, e il mio desiderio è quello di tenerli in vita conservandone la memoria attraverso l’immagine cinematografica, così che gli spettatori possano incontrarli. Tutto questo inoltre si lega alla domanda precedente, dal momento che anche questi spazi ricordano le varie cose che perdiamo in vita.
Parlando invece delle soluzioni di linguaggio, c’è un’inquadratura che ricorre ossessivamente in Kanata no Uta, e che è presente anche nei tuoi precedenti film: quella di un personaggio in motorino, inquadrato di spalle da una camera posizionata su un veicolo. Si tratta di un’immagine, a mio parere, molto significativa, perché attraverso il movimento in avanti suggerisce la volontà del personaggio di squarciare il clima di stasi in cui è immerso, e di scandagliare il trauma che lo delimita.
Sinceramente non ci avevo mai pensato, ma ti ringrazio profondamente per avermi suggerito questo punto di vista. Anche perché quando realizzo i miei film, non li capisco mai completamente, perciò la tua lettura la trovo assolutamente essenziale. Con molta probabilità, questa tua interpretazione mi aiuterà a comprendere meglio alcuni elementi che ancora mi sfuggono del mio cinema. Sai, ci sono molti registi che dichiarano esplicitamente che tutto ciò che entra in un loro film è intenzionale, ma in realtà l’80% di loro mente, sono tutte menzogne! [ride].
Organizzi ormai da 20 anni un workshop con attori emergenti. In quel contesto nascono anche alcuni dei tuoi progetti cinematografici? Ad esempio, prima hai salutato Hamaguchi, e proprio lui ha creato Happy Hour in occasione di un workshop e lì ha scritturato le quattro attrici che avrebbero interpretato le protagoniste. Ti è mai capitata un’esperienza di questo tipo?
Io, generalmente, ancor prima di scrivere la sceneggiatura decido con chi voglio realizzare il film, e nel caso del mio prossimo progetto ho intenzione di collaborare con le persone che stanno frequentando proprio il mio ultimo workshop. Inizialmente avevo pensato di creare un film partendo dalla visione di una città da cui si potesse osservare sullo sfondo il monte Fuji, ma dopo qualche giorno è uscito un lungometraggio che presentava questa stessa immagine, diretto – guarda caso – da Hamaguchi! [ride]. Quindi alla fine ho accantonato l’idea. La situazione era diventata un po’ scomoda!