La musica nel cinema thriller – Manuale di composizione e analisi di partiture, di Marco Werba

Edito da Falsopiano, in libreria

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Accogliendo la definizione del cinema del formalista russo Boris M. Ejchenbaum come arte tecnologica e sincretica, potremmo dire che il ruolo di ogni sua componente, proprio per via della (supposta) originaria inconciliabilità delle parti, va analizzato innanzitutto partendo dalla sua specificità tecnica. Se, inoltre, l’elemento in questione sembra molto più semplice di quel che è, per via della sua larghissima diffusione popolare, ecco spiegato il motivo di un intervento settoriale che sappia inserirlo all’interno di un macro-quadro più organico. Il libro La musica nel cinema thriller – Manuale di composizione e analisi di partiture, di Marco Werba uscito recentemente per i tipi della Falsopiano editore si propone di colmare questa mancanza, facendo leva sulla visione di un addetto ai lavori. Werba infatti è compositore di colonne sonore che vanta nel suo curriculum la collaborazione al film Zoo di Cristina Comencini del 1989 con una giovanissima Asia Argento e, in tempi più recenti, col padre dell’attrice romana, in Giallo del 2009. Nella prefazione del critico Roberto Lasagna è tracciato in breve il senso di questo lavoro: un breve excursus sui maggiori musicisti per film thriller e l’analisi di alcune famose partiture, tra cui quelle dello stesso Werba per il lavoro curato per Dario Argento. Per sottolineare l’importanza che la musica assume nei generi cinematografici più fàtici scrive lo stesso Werba: “Rispetto ai film del neorealismo e della nouvelle vague francese, questo tipo di musica è più presente e spesso più protagonista”.

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Il discorso dell’autore parte da una breve ma precisa nota storica: la fondamentale distinzione dell’inglese Raymond Spottiswoode, che aveva fatto una basilare classificazione in base alle applicazioni che la musica ha nei confronti del testo: 1) Impiego imitativo; 2) Impiego per contrasto, 3) Impiego evocativo; 4) Impiego per contrasto; 5) Impiego dinamico. Naturalmente la distinzione non è mai così netta. Esemplificativo ad esempio delle opposte funzioni che la musica ha all’interno dello stesso film Werba riporta il caso di Profondo rosso di Dario Argento dove i motivi classici della nenia infantile del jazzista Giorgio Gaslini vengono giustapposti al rock progressive dei Goblin per un conflitto sì stridente ma proficuo. Avvalendosi di un apparato iconografico non scontato, il libro prosegue con una panoramica sui principali compositori di colonne sonore. Riguardo Bernard Herrmann, gustoso l’aneddoto sul fatto che nella celebre scena della doccia in Psyco fu egli stesso, all’insaputa di Hitchcock, ad inserire i violenti glissandi di violino sulle urla di Janet Leigh e che solo successivamente egli ebbe l’approvazione del Maestro (che dapprima aveva girato la scena muta!). Su Pino Donaggio riporta invece una precedente intervista sulla sua lunga collaborazione con De Palma, dove l’autore dello score di Vestito per uccidere svela i segreti della sua lavorazione. E proprio sul rapporto tra compositore e regista, Werba riporta un estratto illuminante di Ermanno Comuzio: Secondo il compositore francese Roland Manuel esistono tre categorie di registi: Il regista che conosce le esigenze della musica e i limiti del suo potere (specie rarissima), il regista che non sa nulla della nostra arte e non vuole saperne nulla, infine il regista ignorante degli usi e costumi della musica che però dice di ‘sentirla’ e pretende perciò di sapere meglio di noi come deve essere. Forse proprio per rivalersi su questi ultimi o, più probabilmente, per i propositi manualistici già dichiarati, sin dall’introduzione Werba nella parte finale del suo libro si dedica al tecnicismo, riportando analisi e intere partiture leggibili da chi ha frequentato con profitto il Conservatorio. Un lavoro comunque prezioso in grado di soddisfare diversi pubblici.

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