Moschettieri del Re – Incontro con Giovanni Veronesi e il cast

Presentato a Roma il film tratto da Dumas e interpretato da Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea, Rocco Papaleo, Sergio Rubini, Alessandro Haber, Margherita Buy e Matilde Gioli. In sala il 27/12

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Abbiamo incontrato oggi il regista Giovanni Veronesi e il cast de Moschettieri del Re – La penultima missione, in uscita il prossimo 27 dicembre. Come da titolo, il nuovo film del regista della saga di Manuale d’amore Non è un paese per giovani, vede i quattro famosi moschettieri ideati da Alexandre Dumas, interpretati da Pierfrancesco Favino (unico dei quattro non presente alla conferenza, come vedremo), Valerio Mastandrea, Rocco Papaleo Sergio Rubini, i quali dopo aver cessato il proprio servizio da più di vent’anni (e Vent’anni dopo è proprio il romanzo di Dumas a cui Genovese, insieme al co-sceneggiatore Nicola Baldoni, si è liberamente ispirato) vengono richiamati all’avventura dalla Regina Anna (Margherita Buy) per salvare la Francia dalle trame ordite a corte dal perfido Cardinale Mazzarino (Alessandro Haber, anche lui assente).

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Moschettieri del Re si presenta, allora, come un film decisamente insolito per il panorama del cinema italiano, vuoi per l’ambientazione seicentesca e quindi in costume, vuoi per un budget che viaggia tra i 5 e i 6 milioni di euro. Per il suo autore, Giovanni Veronesi, la genesi del film gira proprio attorno alla settima arte, nella sua essenza più pura, per vivere un’esperienza che oggi, nella crisi contemporanea della sala, si sta probabilmente perdendo: “ho fatto questo film per il cinema, con tanti totali, duelli e costumi. Ci siamo messi d’impegno per fare un film che abbia una cornice cinematografica, senza pensare su quali piattaforme andrà visto. Noi facciamo il cinema, e il cinema deve venir pensato per il grande schermo e gradirei che la gente lo vedesse in sala“. Una nostalgia di fondo che probabilmente si riscontra anche nella pellicola, che affronta proprio il tema della caducità del tempo, specie attraverso i suoi protagonisti che vivono, più di una volta, intensi momenti in cui ricordano il loro passato eroico: “All’inizio si pensava a una farsa, nessuno poteva prevedere che sarebbe venuto anche romantico, forse perché sono invecchiato o forse perché era tanto tempo che volevo scappare, andar via lontano per raccontare una metafora“. La storia, infatti, racconta di una Francia devastata dalle guerre di religione, dove gli ugonotti si vedono costretti a fuggire in Inghilterra per sopravvivere, e per il regista il riferimento all’attualità è piuttosto lampante: “non più tardi di secoli fa succedevano le stesse identiche cose di oggi.

Sull’importanza del film insistono poi gli stessi attori protagonisti, che sottolineano la capacità di Veronesi di mettere su una produzione di questa portata. Margherita Buy si dice infatti “felice che Giovanni sia riuscito a portare a termine una lavorazione così incredibile. […] È stato di una bravura eccezionale“; per Giulia Bevilacqua, che interpreta la celebre e seducente Milady, stretta collaboratrice del Cardinale, si tratta di “un film accattivante, che ci si aspettava dal cinema italiano. È un film in costume, di fantasia, di azione, un connubio di tantissimi generi. E fa molto ridere“; ancor più entusiasta è parso Sergio Rubini, che interpreta Aramis: “realizzare un film di questo genere oggi, in Italia, con questa dimensione, in costume, con un simile dispendio economico, non è una roba normale, ma una roba spregiudicata e controtendenza, perché non è questa la tendenza“, rincarando ancora la dose a proposito dell’ispirazione classica della pellicola: “i classici possono parlare in qualsiasi tempo, come il cinema d’avventura, che ha sempre fatto sognare. Giovanni ha fatto una cosa su chi crede ancora nel cinema“.

La realizzazione complessa e difficoltosa del film a cui accenna Rubini, dalla mastodontica portata, sembra trovare d’accordo lo stesso Veronesi: “è un film che non si può fare da soli, deve funzionare l’equipe, la troupe, eravamo più di 100 sul set ogni giorno. […] Era folle, e la follia fa parte del cinema“. E tra i folli collaboratori che hanno preso parte al film c’è sicuramente l’autore delle musiche, un certo Luca Medici alias Checco Zalone: “Luca mi ha sentito raccontare del film a casa di Valsecchi. Se n’è innamorato e mi ha chiesto se poteva fare le musiche. Non pensavo che avrebbe fatto tutta la colonna sonora, che avrebbe diretto l’orchestra, fare insomma come Piovani (Nicola, premio Oscar per La Vita è bella, ndr). Invece ha fatto proprio come Piovani“.

Quando Veronesi racconta di come abbia avuto quest’idea già negli anni ’80, intenzionato allora a coinvolgere Francesco Nuti, Roberto Benigni, Massimo Troisi e Carlo Verdone, Rubini fa notare scherzosamente: “siamo la seconda scelta“. Quando Valerio Mastandrea (Porthos) afferma di aver accettato il ruolo perché: “con Giovanni non lavoravo dal ’97. Poi son stato contento che a bordo già c’era Rocco, visto che sono i suoi ultimi anni di carriera“, lo stesso Papaleo (Athos) risponde: “loro sono attori bravi, molto seri, e ho pensato che avrei potuto insegnargli come si fa a essere moschettieri e ironici al tempo stesso. E penso che il risultato sia stato buono“. Quest’arguta comicità e profonda alchimia che si respira in sala tra tutti gli interpreti, è stata indubbiamente trasposta sullo schermo e funziona da chiave di volta dell’intero film: “A me piace che non sono comici puri. La cosa che mi piace è che loro sono attori veri, e sono diversi, anche nei tempi comici. Mastandrea, che voi pensate a un attore drammatico, ha dei tempi comici straordinari“. Tra le rivelazioni della pellicola, in tal senso, c’è sicuramente Matilde Gioli, che interpreta l’ancella della regina: “io sono entusiasta del lavoro che Giovanni ha fatto con me, perché ci si è dedicato. Lui ha visto una vena comica in me, e nessun altro l’aveva fatto prima. Mi sono divertita e spero di tirarla fuori in altre occasioni“.

Una comicità portata avanti soprattutto tramite una pluralità di linguaggio, ogni attore ha infatti recitato col proprio accento d’origine, dal lucano di Papaleo al pugliese di Rubini, oppure con un parlato geograficamente ibrido, come quello sfoggiato da Pierfrancesco Favino (D’Artagnan), che a molti ricorderà sicuramente il celebre monologo di Sanremo (e del suo spettacolo teatrale La notte poco prima delle foreste). Come anticipato, Favino, impegnato sul set in Sud America, è presente in sala stampa solo con un suo cartonato, ma ci ha tenuto comunque a raccontare, tramite una registrazione, le origini dietro questa scelta: “è nata un giorno che eravamo a casa di Giovanni. A un certo punto è uscita questa cosa (dopo aver provato insieme diversi accenti, dal toscano al montanaro, tutti ovviamente declamati dall’attore nella registrazione, ndr) e ci siamo detti perché rinunciare, è molto divertente“. Secondo Giulia Bevilacqua quella di Veronesi è stata una scelta linguistica finalizzata a contrastare “l’iperrealismo della messa in scena“, oltre che per enfatizzare la comicità sullo schermo naturalmente. A tal proposito aggiunge Matilde Gioli: “trovo che funzioni molto questa promiscuità di linguaggio. In questo film c’è anche una promiscuità di stile, da epico a tragico a comico, che rende molto interessante la storia“.

Moschettieri del Re è infine caratterizzato da una continua intrusione della modernità, come afferma ancora la Gioli: “il confine è molto sottile tra il rispettare la realtà del 600 e finire in una commedia contemporanea. Penso che sia bello che si veda che siamo di questo periodo, anche se inserite in un contesto del ‘600 che resta comunque credibile“. Un approccio in qualche modo simile a quello che Veronesi ebbe nell’affrontare il genere western, in Il mio west (1998), di cui però il regista non conserva un bel ricordo: “feci un grave errore facendo quel film. Volevo fare un western a casa mia, con attori miei, che sento miei, come per questo film. Poi lì il produttore mi disse di fare invece un film in inglese, con un cast internazionale. Alla fine abbiamo fatto un ibridone che fu reputato un insuccesso economico, almeno rispetto ai film di Leonardo (Pieraccioni, ndr). Dopo tanti anni lo posso dire, sbagliai, questo per dire che bisogna seguire sempre i primi istinti che ti vengono“. Istinti stavolta perfettamente rispettati, invece, e a chi, proprio sull’onda di quest’entusiasmo, gli chiede se abbia in mente una saga visto il sottotitolo La penultima missione, il regista risponde: “non comporta banalmente l’annuncio di un altro film. A me piace l’idea che le cose non finiscano lì, che si continui. Per questo La penultima missione è un sottotitolo che metterò a tutti i miei prossimi film“.

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