Pain Hustlers. Il business del dolore, di David Yates

Un’opera godibile che avrebbe potuto sviluppare un’importante riflessione meta comunicativa sulla semantica di genere utilizzata nelle docuserie su piattaforma ma che preferisce non rischiare. Netflix

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Liza Drake (Emily Blunt) sogna una vita migliore per sè e sua figlia. L’occasione per rilanciarsi le si presenta il giorno che incontra Pete Brenner (Chris Evans), un discutibile venditore che lavora in una piccola azienda farmaceutica, amministrata da un eccentrico investitore (Andy Garcia), prossima alla bancarotta. Liza, spinta dalla forza della disperazione, riesce a farsi assumere. Di lì a poco, riuscirà a convincere molti medici a prescrivere ai propri pazienti il Lonafen, un farmaco in grado di alleviare il dolore provato dai malati di cancro allo stadio terminale. In qualche anno, le sorti di Liza e della azienda per cui lavora cambiano completamente. Gli affari vanno alla grande, la giovane donna sperimenta una vita di lusso e comfort per la sua famiglia. Ma non è tutto oro quel che luccica. E Liza dovrà presto pagare il prezzo della propria scalata verso il successo.

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Tratto dalla storia vera di uno dei processi più importanti degli ultimi anni dell’industria farmaceutica americana, David Yates elabora un ambizioso film-inchiesta, scritto in collaborazione con Wells Tower che sembra poter riprendere, quantomeno nella sequenza iniziale, la struttura delle tanto discusse docu-serie targate Netflix. D’altro canto, l’interessante cortocircuito interno alla piattaforma streaming (che ha acquisito i diritti del film e che si è occupata della distribuzione su piattaforma), alle sue strategie produttive e comunicative, portato avanti nei primi minuti del film, è destinato a scomparire quasi subito, ritornando saltuariamente a piccole dosi nel corso del film. Nel mezzo, Yates orchestra un ritmo sicuramente piacevole a cui, però, manca una linea narrativa coerente per lo spettatore. Si parte con quello che è, a tutti gli effetti, un’intelligente parodia della semantica di genere utilizzata nelle docu-serie su piattaforma. Poi, però, c’è un brusco cambiamento, e Yates si dimostra più interessato a concentrarsi completamente sul conflitto interiore della protagonista, interpretata con grande personalità da Emily Blunt, abbandonando l’interessante spunto iniziale e perdendosi (colpevolmente), in questo modo,  tra le pieghe del tipico dramma biografico made in USA.

Gli echi di The Wolf of Wall Street, non tardano ad arrivare, eppure gli imponenti toni farseschi dell’eccessiva e plastificata black comedy scorsesiana, sono solo timidamente rievocati nella messa in scena. In altri passaggi ritorna in mente lo stile esuberante ma estremamente calcolato di David O. Russell in American Hustle, ma Yates riesce a scongiurare il pericolo di cadere nello stesso inconcludente vortice cinematografico del collega statunitense.

Pain Hustlers, in fin dei conti si dimostra un’opera godibile nel corso dei suoi 123 minuti, con al seguito un cast importante che fa decisamente la propria parte. I dubbi rimangono su quale sia il disegno generale di un progetto che avrebbe potuto affrontare un’importante riflessione meta comunicativa sull’istituzionalizzazione di un certo linguaggio audiovisivo nel contemporaneo, ma che preferisce ripercorrere la strada battuta di un progetto di più facile e immediata lettura.

Titolo originale: Pain Hustlers
Regia: David Yates
Interpreti: Emily Blunt, Chris Evans, Andy Garcia, Chloe Coleman, Catherine O’Hara, Brian d’Arcy James, Jay Duplass
Distribuzione: Netflix
Durata: 122′
Origine: UK; USA, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.7
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Il voto dei lettori
1 (1 voto)
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