PESARO 44 – "Asyl – Park and Love Hotel", di Kumasaka Izuru

AsylCome fosse una staffetta, i personaggi di Asyl – Park and Love Hotel si passano il testimone l’un l’altro, spingendo la pellicola ogni volta un passo più oltre, in un alternarsi volumetrico di pieni e vuoti, dentro e fuori, secondo combinazioni sempre diverse. Ed ecco che l’insostenibile cristallizzazione del dolore, la sua pesante aura così dannatamente femminile e soffocante, abbandonano i corpi che si muovono sullo schermo, fino a perdersi in un eterno tramonto – VIDEO

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AsylDopo essere passato nella sezione Forum del 58° Film Festival di Berlino, portandosi a casa il riconoscimento della kermesse come miglior opera prima, approda in competizione a Pesaro il lavoro del giapponese Kumasaka Izuru. Come fosse una staffetta, i personaggi di Asyl – Park and Love Hotel si passano il testimone l’un l’altro, spingendo la pellicola ogni volta un passo più oltre. È Mika, una tredicenne dal passato nebuloso, la più giovane delle donne a fare tappa all’albergo gestito da Tsuyako, proprietaria di mezza età rimasta sola ad occuparsi dei clienti dopo la scomparsa del marito. Dopo di lei anche Tsuki, una trentenne con l’hobby della corsa e Marika, una ragazza assidua frequentatrice del Love Hotel. L’incontro con la nonna (così la chiamano tutte quante) nasce per ciascuna di loro dall’inconsapevole necessità di riempire un vuoto. Lo spostamento da un luogo del film all’altro avviene così quasi per inerzia, per negazione nei confronti di un altro luogo, questa volta dell’anima, seguendo così binari paralleli e sovrapposti allo stesso tempo. La vita delle protagoniste rimane infatti bloccata, incastrata, maledettamente condannata all’immobilità, alla ripetizione ossessiva di gesti e fissazioni, come lo scattare istantanee di luoghi e persone per Mika, il contare giornalmente i propri passi per Tsuki, il collezionare lo sperma dei suoi innumerevoli uomini per Marika, il rileggere lo stesso identico libro infinite volte per la stessa Tsuyako. Come fossero rituali capaci di bloccare il corso del tempo, di allontanare da ciascuna il dolore della solitudine, rendendola spettatrice della propria esistenza, frequentatrice dell’asilo, il parco giochi fatto costruire da Tsuyako. Un luogo esistenziale, uno spazio interiore che è sospensione, espiazione, un non-luogo.

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I corridoi e le stanze dell’albergo, l’interno della casa di Tsuyako e di quella di Tsuki, esistono in contrapposizione con lo spazio aperto della terrazza-parco giochi, in un alternarsi volumetrico di pieni e vuoti, dentro e fuori, secondo combinazioni sempre diverse. L’estrema ripetitività della pellicola infatti, nella quale lo scorrere del tempo viene sottolineato proprio dalla riproposizione di gesti ormai divenuti meccanici, viene scalfita pian piano dall’inserimento di piccole variazioni, piccoli cambiamenti nel comportamento dei personaggi, come fossero note diverse all’interno di un tema musicale. In un primo momento sono particolari quasi impercettibili, poi veri e propri mutamenti che intervengono nelle storie dei singoli personaggi, fino alla completa liberazione finale. Ed ecco che l’insostenibile cristallizzazione del dolore, la sua pesante aura così dannatamente femminile e soffocante, abbandonano i corpi che si muovono sullo schermo, fino a perdersi in un eterno tramonto.

 

 

 

 

Asyl — Park and Love Hotel

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