Phil Spector nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Un viaggio tra le riemersioni dei brani di Phil Spector (morto lo scorso 16 gennaio) tra film e serie tv per capire come l’immaginario di massa abbia fatto i conti con una personalità così ambigua

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Lo scorso 16 Gennaio è morto Phil Spector, produttore discografico e autore dietro ad alcuni dei brani pop più importanti degli ultimi sessant’anni ma anche assassino della modella e attrice Lana Clarkson, uccisa nel 2003.

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La personalità di Phil Spector, un po’ come quella dei personaggi letterari dell’800 è al contempo affascinante ed esecrabile, legata ad una forma mentis nutrita di misoginia e maschilismo. Il suo contributo all’evoluzione alla storia della musica rimane innegabile ed il Wall Of Sound ha di fatto plasmato la grandiosità del pop massimalista contemporaneo, anche attraverso le collaborazioni “illuminate” con Beatles, Lennon o Ramones.

E dunque, un confronto davvero fruttuoso con la sua personalità passa attraverso una riflessione sul modo in cui l’inconscio collettivo ha processato l’istanza traumatica di cui si è fatto portatore Spector, a partire dalle modalità in cui la cultura di massa ha utilizzato e rilanciato i suoi brani in film e serie tv.

Il rapporto tra la dimensione dell’audiovisivo ed il produttore discografico è infatti particolarmente complesso. A contatto con lo spazio mediale la figura di Spector ha subìto un’ inaspettata amplificazione delle sue ambiguità morali, uno svelamento della sua natura sfaccettata che è avvenuta anche soltanto attraverso l’accordo di un suo brano inserito al momento giusto nella colonna sonora di un prodotto audiovisivo.

Colpisce in effetti quanto proprio l’immaginario popolare abbia percepito la necessità di tornare a Phil Spector, probabilmente anche a seguito dell’affascinante ma sghembo biopic con Al Pacino diretto da David Mamet nel 2013, che restituisce una versione semplificata ed edulcorata della personalità del produttore.

Se pensiamo al passo di Mamet e lo confrontiamo con le modalità con cui la cultura di massa ha dialogato anche solo con Be My Baby delle Ronettes, forse uno dei brani più famosi prodotti da Spector la differenza è abissale.

Nel tempo, il sognante brano in cui una donna implora l’uomo di cui è innamorata di mettersi con lei ha lasciato emergere tutta la sua arretratezza ideologica ed è diventato una scoria immaginifica da affrontare con ironia, quasi a volerne disinnescare la portata simbolica.

Non è casuale che il brano sia presente in molti prodotti legati a riletture femministe di certi immaginari (come in The Chilling Adventures Of Sabrina) o a progetti che non nascondono in alcun modo la loro natura autoironica (come il dating show Love Island) e non stupisce che sia amato anche da Ryan Murphy, il cui approccio alla scrittura è inscindibile da un certo gusto per il kitsch. C’è proprio Be My Baby, infatti, in sottofondo ad una delle scene di omicidio di Scream Queens.

In altri casi, l’uso dei brani è più diretto e i pezzi risultano elementi centrali per riflettere sui lati oscuri dei rapporti di coppia. He Hit Me (And I Felt Like A Kiss), delle Crystal, in cui una donna giustifica le violenze che subisce dal suo uomo compare sui titoli di coda dell’episodio Mystery Date di Mad Men, subito dopo un finale che vede Joan ammettere a sé stessa che il marito è un uomo molto peggiore di quanto immaginasse. Emblematico, al contempo, che Instant Karma! che Phil Spector produsse per John Lennon compaia in una sequenza di Californication, serie manifesto della mascolinità tossica negli anni ’00.

Spesso risulta affascinante la grana decadente di certi brani prodotti da Spector, il feeling che li porta ad essere percepiti come elementi inerti, depotenziati, provenienti da un mondo altro, un aspetto che rende certi pezzi ideali per arricchire narrazioni che fanno riferimento a immaginari in crisi.

Nelle prime scene di Bad Times At El Royale, opera-mondo sulla storia traumatica degli Stati Uniti, si può ascoltare He’s Sure The Boy I Love mentre  P.S. I Still Love You, si apre con la protagonista che canta allo specchio And Then He Kissed Me delle Crystals, un pezzo volutamente artefatto, corrispettivo sonoro perfetto di un progetto che spinge all’eccesso e distrugge le meccaniche convenzionali della rom com che lo reggono.

Con il tempo Phil Spector è diventato però anche una sorta di fantasma mediale, di cui la diegesi vuole ostinatamente liberarsi ma che spesso ha finito per infestare il tessuto narrativo anche quando lui o le sue creazioni non ne sono il focus primario

Spesso My Sweet Lord è risultata ad esempio un pezzo di contorno alla narrazione, quasi annichilito dalla personalità ingombrante di George Harrison ma non bisogna sottovalutare come, a contatto con certi immaginari, il brano abbia lasciato emergere un’evidente grana di inquietudine, che lascia presagire un velato senso di minaccia incombente. Possiamo ascoltarla in una scena di combattimento di Preacher ma, soprattutto, il pezzo di Harrison sottolinea l’arrivo dei Guardiani della Galassia sul pianeta Ego, luogo pacifico e accogliente che però è anche nasconde una misteriosa minaccia.

Pensiamo però anche a ciò che accade in Love And Mercy:  il biopic dedicato a Brian Wilson riassume la complessa ricerca di un suono “alla Spector” da parte del cantante in una sequenza in cui, durante la lavorazione di Pet Sounds, per Paul Dano/Brian Wilson, Spector rappresenta al contempo l’uomo da battere e, di nuovo, il demone che lo tormenta e lo fa sentire inadeguato.

Phil Spector rappresenta un unicum all’interno dell’immaginario di massa. Al contempo glorificato sul piano artistico e lucidamente messo in discussione su quello morale, il produttore è forse uno degli esiti più felici di quella che potremmo definire come post postmodernità, un approccio in cui le icone non sono più solo inerti materiali costruttivi ma subiscono un processo in cui vengono vivificate, messe tra parentesi, continuamente rimesse in discussione alla ricerca di nuove chiavi di lettura che ne svelino le complessità più nascoste.

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