Red Dot, di Alain Darborg

Le Lande desolate della Svezia fanno da sfondo a un survival movie che mette a fuoco gli istinti primordiali dell’uomo, in un dilemma morale e filosofico. Primo original svedese di Netflix

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Lande desolate e corse a perdifiato nella neve, in un survival, la cui ambientazione ostile ricorda Wind River, che si muove su terreno (s)conosciuto. Il Wyoming viene sostituito dal Nord della Svezia, che fa vanto della sua natura incontaminata e di un’atmosfera immaginifica ma pericolosa, in un thriller sulla sopravvivenza dalla struttura classica ma che si muove in zone cinematograficamente meno esplorate della controparte ghiacciata americana. La storia parte come quella di un gioco perverso già visto e prevedibile, ma cambia poi direzione con un plot twist nel finale, arrivando a mettere in discussione l’intera visione precedente così come l’integrità dei protagonisti.

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David e Nadja sono giovani, felici e pronti a sposarsi. Passa del tempo dalla dichiarazione di lui, e qualcosa nelle loro vite sembra essersi spezzata: a primo acchito i due sembrano essersi fatti soggiogare dai problemi della vita di coppia quotidiana stereotipata, l’ossessione per il lavoro di lui, il peso delle questioni domestiche di lei, più l’arrivo di un bambino che pensano stranamente di non meritare. Proprio in quel momento capita loro la possibilità di intraprendere una piccola escursione per due in mezzo alla natura, così da osservare l’aurora boreale, che intraprendono nella speranza che risolva i loro problemi. A viaggio iniziato l’atmosfera si fa però più pesante, alzando velocemente il livello di tensione, dovuto soprattutto a un incontro sfortunato avvenuto alle pompe di benzina che li condurrà a essere seguiti fino in mezzo al ghiaccio e la neve; lì saranno puntati da un mirino laser, come quello dei fucili di precisione, da un punto indefinito e senza modo per loro di nascondersi dalla follia di chi, nascosto nel buio e da un ambiente ostile che conosce bene, si prende gioco di loro.

Un Nord Europa silenzioso e insospettabilmente razzista, quasi deprimente, abitato da alcuni brutti ceffi che trasformano la Svezia in territorio americano situata tra il Montana e lo Utah. Strade deserte, pompe di benzina non sicure, locande che danno un benvenuto insolito e due personaggi ignari che si muovono soli in ambienti naturalistici impervi. Un survival movie che parte da premesse poco originali, seguendo i predecessori americani, ma che al tempo stesso cerca di distanziarsene e stupire, mostrando il suo punto narrativo più forte nel finale, nel momento  in cui ogni mistero è svelato. Il twist non è efficace tanto nella storia in quanto thriller sulla sopravvivenza che non si sposta dal conosciuto, ma in quanto opera che, facendosi carico di un ingombrante senso di giustizia, si orienta sul revenge movie.


Vengono affrontati al cinema dilemmi morali esistenziali che filosofia e letteratura hanno tentato di elaborare sin da prima dell’Anno Domini, sull’arte della giustizia “fai da te”, che sullo schermo prende connotazioni diverse rispetto alla realtà e legate all’empatia spettatore-personaggio, come avviene in film quali Il Padrino o Joker.
Meno abusata è l’analisi intima che fa il giustiziere sulle sue vittime prima di emettere la sua sentenza. Un dettaglio forse insignificante, forse determinante per la riuscita del film e il suo volersi distaccare dal classico. L’opera può sottolineare quanto in questi casi lo spettatore possa essere volubile: lo spettatore prima abbraccia i due personaggi ‘puri’, ma poi li abbandona quando emergono gli aspetti più oscuri delle loro vite.
Regista e sceneggiatore diventano psicologi e filosofi attraverso l’effetto framing, modificando la posizione della cinepresa e invertendo l’ordine di racconto così che lo spettatore veda esattamente ciò che gli si vuol far vedere, lasciando fuori il resto per poterlo riutilizzare in un altro momento, mettendo così in scena i loro giochi psicologici approfittando per porre domande etiche insormontabili. I due creatori hanno inscenato un test per il pubblico e sollevato un dilemma di filosofia morale che vuole spingere a comprendere quanto sia insito nell’individuo medio il non vedere mai oltre il proprio dolore. C’è tanto di Saw – L’enigmista, sia nel gioco col colpo di scena all’ultimo minuto sia nel voler punire chi non ha provato amore per la vita umana – in questo caso altrui.
Il significato dell’esistenza ancorato all’istinto di sopravvivenza è da tempo diventato un must, un vero e proprio fenomeno di culto che sfrutta i generi dal thriller all’horror così come vari sottogeneri, dal survival al revenge movie al torture porn in cui si indaga il comportamento umano con un’analisi che parte psicologicamente dal senso di colpa. Si è costruita un’impalcatura che spesso funziona grazie al gioco psicologico interno, per cui la vittima può diventare carnefice e viceversa, il che rivela sempre scomode verità; al tempo stesso, avviene che nel cercare di stupire troppo lo spettatore si perde di vista la struttura solida del cinema, come in questo caso in cui è venuta meno nella caratterizzazione psicologica dei personaggi e nella creazione di un costrutto narrativo abbastanza complesso che tiene davvero col fiato sospeso.

Titolo originale: id
Regia: Alain Darborg
Interpreti: Johannes Kuhnke, Nanna Blondell, Anastasios Soulis, Kalled Mustonen, Tomas Bergström
Distribuzione: Netflix
Durata: 85’
Origine: Svezia, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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