Rendez-vous 2019 – Incontro con Jacques Audiard

Il nostro incontro con Jacques Audiard incentrato sul suo ultimo film, I Fratelli Sisters, in occasione dei Rendez-vous, in cui ha approfondito il suo singolare approccio al western.

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Premiato col Leone d’Argento al 75° Festival di VeneziaI Fratelli Sisters è il primo film in lingua inglese dell’acclamato regista Jacques Audiard. Tra gli autori francesi più premiati al giorno d’oggi, dalla Palma d’Oro per Dheepan – Una nuova vita al Prix du scénario per Un héros très discret ricevuti a Cannes fino alla candidatura all’Oscar al miglior film straniero per Il profeta (vincitore inoltre del Grand Prix Speciale della Giuria, sempre a Cannes, e di 4 Premi César), Audiard irrompe così nel cinema statunitense con uno dei generi più fortunati della tradizione americana: il western.

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I Fratelli Sisters (titolo originale, The Sisters Brothers) racconta infatti di Charlie ed Eli Sisters (Joacquin Phoenix e John C. Reilly), due assassini cresciuti in un mondo selvaggio e ostile, dei notevoli pistoleri che conoscono però unicamente il linguaggio del sangue, uccidendo su commissione per conto dello spietato Commodore. Ultimo obiettivo assegnatogli è quello di catturare il chimico Hermann Kermit Warm (Riz Ahmed), già raggiunto dall’investigatore John Morris (Jake Gyllenhaal) che nel mentre dovrebbe mandare loro informazioni sulla posizione del fuggiasco. I due s’inoltrano allora nei territori del Nord Ovest, in un viaggio che metterà a dura prova il legame tra i due, i cui litigi sui rispettivi metodi ed ideologie sono all’ordine del giorno, portandoli al tempo stesso a riscoprire ciò che resta della loro umanità.
Presente ai Rendez-vous, il festival del nuovo cinema francese, che gli hanno dedicato per l’occasione un focus speciale compreso di masterclass col pubblico, abbiamo incontrato Jacques Audiard per parlare proprio della sua ultima fatica.

Nella carriera di Jacques Audiard, I Fratelli Sisters rappresenta decisamente un unicum, almeno per quanto riguarda la sua aderenza al genere di appartenenza, ossia il western, di cui lo stesso regista ha ribadito più volte di non definirsi un vero appassionato. E infatti, come rivela il regista: “questo progetto è nato per la volontà di John. C Reilly, che mi ha incontrato al festival di Toronto e mi ha proposto l’adattamento del romanzo di Patrick De Witt (Arrivano i Sister, NDR). [..] È quasi un film su commissione, in qualche modo“. Successivamente, poi, ritorna sul particolare interessamento dell’attore statunitense: “John C. Reilly sicuramente mi avrà trovato interessante come regista ed è arrivato a un punto della sua carriera dove ha collezionato molti ruoli come caratterista comico, però ruoli secondari. […] Il sistema americano sa essere molto duro e claustrofobico nell’impedirti di passare da un livello a un altro e lui ha avuto voglia di fare questo scarto“.

Chiamando un cineasta europeo, e soprattutto uno come Audiard, Reilly (in veste anche di produttore) avrà quindi certamente valutato, positivamente, la visione decisamente anti-conformista del western da parte dell’autore, poco magnanimo nei confronti della produzione recente: “quando mi hanno proposto questo film ho cercato di fare il punto sul genere, andando a vedere i western degli ultimi 5 anni e non mi sembra di aver visto lavori così compiuti“. Un’approccio diverso in realtà presente fin dal materiale d’origine, come rivela il regista: “Era un’intenzione già presente nel romanzo, che ha una sorta di posizione particolare del western. Gli piace raccontare l’intimo dei cowboy, la loro igiene personale, la masturbazione – anzi no, questa è una cosa mia (aggiunge ridendo, NDR)”. Il lavoro più complesso, allora, è stato scegliere proprio quale tipo di immagini costruire: “Ci sembrava un’impresa molto impegnativa. Vi dico soltanto che con Thomas (Bidegain, co-sceneggiatore insieme ad Audiard) a un certo punto abbiamo immaginato una versione completamente notturna, girata nell’oscurità, un po’ come se i personaggi apparissero e sparissero dall’inquadratura, oppure come fossero dei vampiri. Per dirvi come abbiamo provato a immaginare di spingere alle estreme conseguenze la stilizzazione delle immagini. […] Poi ci siamo resi conto che l’unica forma che potesse inglobare degli elementi così disparati fosse un immaginario fiabesco, da racconto“.

A proposito di immaginario, allora, impossibile non pensare all’influenza di chi, più di tutti, ha contribuito a costruire e a rendere indelebile quello del western all’italiana: “Sergio Leone è un cineasta che ammiro più di quanto fossero grandi i suoi film. Trovo e riconosco e ammiro nei suoi western un’audacia formale assolutamente unica e un pensiero sintetico, una capacità di sintetizzare il pensiero che suscita una profonda emozione. […] Non sono magari in grado, ora come ora, di ricordare la storia dei suoi film, mentre resteranno per sempre impresse nella mia mente le immagini che ha saputo darci, con il suo techniscope, con la musica, con la sua capacità di regalarci immagini che resteranno per sempre impresse nella nostra mente mediante semplicemente qualche nota, tre suoni, dei rumori, disegno e costumi “. E proprio parlando di musica, non si può non fare una menzione al “suo” ormai fedele compositore, ossia quell’Alexandre Desplat (presente, tra l’altro, anch’esso al festival con una masterclass) con cui è giunto alla settima collaborazione: “con Alexandre abbiamo fatto insieme il mio primo film, ormai 30 anni fa, quando eravamo entrambi ai primi passi nel cinema. […] Non so bene perché io scelgo lui e lui scelga me. Indubbiamente è un compositore di cui ammiro il talento, estremamente singolare e vario. Siamo innanzitutto amici e il rapporto della nostra collaborazione è molto cambiato, dai primi titoli che abbiamo fatto a oggi. Nei miei primi lavori mi dava già delle campionature sul set, ora aspetta di vedere le immagini. Devo dire che questo film fa eccezione perché la colonna sonora è interamente firmata da lui, ma normalmente io utilizzo sia le sue musiche originali, per designare determinate situazioni personali, sia musica preesistente, per dare invece un’idea dello scorrimento del tempo“.

Come si può intuire, insomma, da tutti i discorsi iniziali, I Fratelli Sisters, come suggerisce il nome, poggia tutta la sua attenzione sul rapporto tra i due “Sister” e le dinamiche, spesso divertenti, che li vedono protagonisti: “Non avendo alcun rapporto col mito del western, in qualche modo mi sono avvicinato a questa storia non in linea diretta ma cercando di prenderla un po’ a margine. E ho voluto costellarla di questi momenti, perché è un racconto di formazione di due fratelli, che sembrano due bambini, che litigano, discutono, si divertono a far campeggio. È stato il mio modo di affrontare il genere“. Quasi a rincarare la dose, aggiunge: “Il western naturalmente è fatto di paesaggio e di spazi […] ma io mi sono occupato più di personaggi e attori, e non del paesaggio, non faccio il giardiniere“. Il suo film è quindi: “un racconto sull’identità e su come ciascuno si crea la propria rispetto a quella degli altri“, argomento che allo stesso tempo nasconde, però, il più forte punto di contatto con la sua filmografia, ossia il “padre tirannico” di Charlie ed Eli, che con la sua ingombrante figura ha segnato per sempre la loro psicologia: “È sicuramente uno degli elementi del genere western, che rimanda alla questione secolare della brutalità del rapporto tra uomini. Pensiamo ai film di John Ford come L’uomo che uccise Liberty ValanceRio Bravo. Ed è sicuramente una questione che prima o poi dovremmo riuscire a risolvere, tra quelle che mi stanno più a cuore: l’eredità di queste figure paterne con cui dobbiamo venire a patti e che mondo stiamo lasciando per il futuro“.

L’influenza, in questo caso decisamente negativa, del padre dei fratelli Sister apre infine a una curiosa componente autobiografica del regista, che col proprio padre (lo sceneggiatore Michel Audiard) racconta, anche scherzosamente, di aver avuto un rapporto tanto complicato da condizionare il suo stile di lavoro: “Mio padre era uno sceneggiatore e quindi l’eredità familiare va sulla letteratura. Mio padre mi consigliava libri, testi (soprattutto di Proust, NDR), e non film da vedere. Io non mi sento uno sceneggiatore in termini di dialoghi e battute dei personaggi, e forse questo sta in me una sorta di lotta contro mio padre. Mi sento più uno sceneggiatore di situazioni“. Un approccio alla scrittura, quindi, che lui stesso definisce “intellettuale”, che però stavolta ha subito un completo stravolgimento, soprattutto per via della lingua (l’inglese) in cui ha girato per la prima volta: “quando si cambia lingua si cambia anche inevitabilmente linguaggio cinematografico. […] Gli ultimi due film li ho girati in una lingua che non è la mia. Dheepan era girato in tamil e questo in inglese, una lingua che io parlo meglio di quanto non capisca. Inevitabilmente da parte mia c’è un desiderio di provare a distanziarmi da una lingua che penso di conoscere. Cambiamento che mi costringe a modificare il rapporto che ho con gli attori con cui lavoro e a modificare anche le mie aspettative sull’interpretazione che questi stessi attori mi regaleranno. Come se avessi spontaneamente lasciato un approccio più intellettuale per privilegiare un approccio più musicale“.

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