RoFF18 – Gli Immortali. Intervista ad Anne Riitta Ciccone

Un film intimo, che mette in contatto noi e l’Altro anche grazie a un lavoro di mescolanza di linguaggi. Ce ne parla la sceneggiatrice e regista. In Freestyle alla Festa del Cinema di Roma

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Gli Immortali è il nuovo film di Anne Riitta Ciccone (I’M – Infinita come lo spazio), una storia personale che la regista trasforma in un film sperimentale tra teatro e distopia, presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Freestyle. Abbiamo intervistato l’autrice.

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Partendo dalla costruzione dei personaggi, come hai lavorato dalla scrittura al lavoro sul set? Pensando soprattutto al conflitto che si crea tra Valerio (David Coco) e Chiara (Gelsomina Pascucci)

Ho scritto questa sceneggiatura nel 2004. Lo dico perché guardando il film non ho cambiato una virgola da allora. La scrissi perché è tratta da una storia vera, quella mia e di mio padre. Un estate infatti mi chiamò dicendomi che non stava bene, lui lavorava in Africa e nei Paesi Arabi, era capocantiere nei paesi a rischio. Quindi per me c’è sempre stato questa figura paterna da un certo punto di vista magico e avventuroso per via del suo lavoro e dei suoi viaggi. D’altro canto seguiva ciecamente i suoi ideali, ai quali sembrava tenere di più della sua stessa famiglia. Io sono partita da questi presupposti. Ne Gli Immortali il rapporto padre-figlia non è davvero centrale, il centro è il modo in cui affronti il tempo e l’idea di non permanenza nel mondo, quanto poco tempo abbiamo noi tutti. È stato fondamentale il lavoro fatto durante un workshop della Columbia University, con la scrittrice e editor Milena Jelinek. Mi sono molto fidato di lei riguardo il concetto che il personaggio e la persona non combaceranno mai verosimilmente, dunque va drammatizzato. Ho lavorato con i due personaggi cercando di muovermi tramite gli archetipi: il padre assente, la figlia che ha bisogno di lui ecc. Quindi usando gli archetipi, mi sono rifatta anche all’idea che troviamo nelle tragedie greche, o quelle shakespeariane. Poi penso che il rapporto padre-figlia raramente sia raccontato nel cinema.

Da parte tua c’era l’intenzione di affrontare la tua figura paterna in modo così aperto e sincero?

Si, è stato difficilissimo. Ad un certo punto ero anche tentata di non farlo più. Ma promisi a mio padre di concluderlo e realizzarlo. Quando nel 2005 RaiCinema era interessata al progetto, io ero già al terzo film dopo Le Sciamane e L’amore di Marja, ho avuto paura nel girarlo. Forse col senno di poi feci bene a non realizzarlo allora, non essendo abbastanza matura; né lo erano i tempi. Secondo me infatti la narrazione segue un’evoluzione dal punto di vista dello spettatore. E adesso con il panorama dello streaming e l’evolvere del cinema Gli Immortali si avvicina a un gusto più contemporaneo. Per questo ho scelto finalmente di farlo, tenendomi fedele alla sceneggiatura scritta con Milena durante il workshop. Questi giorni scorrevo le mie vecchie mail e ne ho trovata una del 2004 in cui Milena affermava che il film era pronto e la sceneggiatura era salda. Però, mi scrisse, secondo lei questo film verrà capito tra 20 anni. 20 anni sono passati e ancora questa storia è così toccante per me, così come il lutto di mio padre. Sono molto repulsiva all’idea della morte, dell’invecchiamento.

Quindi secondo te, da sceneggiatrice, c’è un’idea secondo cui le storie vivono nel tempo? Anche quando sono chiuse in un cassetto aspettando il momento giusto per essere realizzate.

Totalmente. Penso che non sia una forma di sconfitta quando una storia non è pronta o non la sentiamo pronta, o non lo siamo noi. Il nostro lavoro di scrittura è anche quello di anticipare i tempi. Il tempismo è tutto a volte. Quando si scrive un film lo si fa per un pubblico, personalmente infatti non credo nel potere terapeutico del cinema. Bisogna ragionare con la figura dello scrittore, chi lo realizza e la figura distributiva; per farci capire meglio da più persone possibili. I tempi cambiano e noi dobbiamo captare le esigenze. Nel mio film mi sono potuta permettere di mischiare diversi linguaggi (cinema, teatro) perché oggi come oggi il pubblico è abituato alla mescolanza e all’ibridazione.

E parlando proprio di mescolanza tra linguaggi, ne Gli Immortali questo accade. C’è una forte rappresentazione in forma teatrale in alcuni momenti. Come hai lavorato a queste influenze tra diverse forme?

Io da spettatrice non amo molto il cinema-verità, piuttosto preferisco il cinema in quanto rappresentazione della realtà attraverso la messa in scena. È una questione di gusti, e i gusti di oggi sono cambiati, anche grazie all’educazione impartita dalla serialità, con la quale sono totalmente d’accordo. Di questi cambiamenti il cinema non può che giovarne, proponendo una diversità nella rappresentazione, appunto. Inoltre il tema che ho trattato, universale e perpetuo come lo è quello dei rapporti con i genitori, mi ha permesso di creare un vero e proprio palcoscenico dell’inconscio: è un’eucarestia, che in greco significa ripetizione. È come se la protagonista, che poi sarebbe il mio alter ego, provasse a capire vedendo; non riuscendoci mai e riprovandoci con le successive visioni. Questo palcoscenico ovviamente è ricolmo di simboli e rimandi, per ricollegarmi al mondo onirico. Abbiamo lavorato su queste idee con i miei collaboratori.

Questo è un film che esplora espressamente il mondo del divino. Ma si accosta (in misura minore) anche all’idea di “alieno”, di Altro. Questa idea del divino ti appartiene in quanto persona? O è un tema che scegli di esplorare da autrice?

Riguardando i titoli della mia filmografia mi sono resa conto di avere una cristianità intrinseca. Mia nonna era figlia di un pastore luterano. Suo marito invece era figlio di una sciamana. Quando arrivai a Messina a sette anni parlavo solo finlandese, quindi i miei mi portarono a scuola dalle suore. Io che non ne avevo mai vista una prima d’ora, e vederla per la prima volta mi fece quasi paura. Sono intrisa di religiosità in questo senso, che vivo sin dai miei primissimi ricordi d’infanzia. Poi i miei studi universitari in Filosofia e Scienze delle Religioni sono stati un approfondimento, quasi inconscio. Per quanto riguarda la questione “aliena”, riguarda la mia passione per la fisica e la quantistica ed è soprattutto legata a mio papà. Difatti lui era un grandissimo appassionato di film di fantascienza degli anni ’50, e mi trasmise questo amore per Philip K.Dick; era una cosa tutta nostra.

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