ROTTERDAM 36 – Cinemavita e lampi di verità

Capita, nell'immensa programmazione dell'International Film Festival olandese, di imbattersi nella filmografia di Stephen Dwoskin, uno dei total filmakers più radicali del cinema contemporaneo. O in Keja Ho Kramer, figlia del grande Robert

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Piedi nudi di donna sbucano da una coperta, si rilassano contraggono ridono giocano osservati nel corso di una notte da uno sguardo complice che li filma e al montaggio li riduce velocizzati a diverse andature alla durata di quattro minuti. Tutto in una notte dando a quei piedi, che alla fine tornano a nascondersi sotte le coperte, nuovo senso e agilità e desiderio e innocenze perversioni che scaturiscono da questa sinfonia muta che mette in sovrimpressione Lumière e Méliès… Inizia così, nel 1961, con un cortometraggio assolutamente espanso, Asleep, la filmografia di Stephen Dwoskin, uno dei total filmakers più radicali del cinema contemporaneo. Capita, nell'immensa programmazione dell'International Film Festival di Rotterdam (la cui trentaseiesima edizione è in corso di svolgimento nella città olandese fino al 4 febbraio), di incontrare rarità come Asleep, "nascoste" nel palinsesto di quella che rimane una delle manifestazioni cinematografiche più importanti del mondo, da alcuni anni diretta da Sandra Den Hamer. E di Dwoskin, il cui continuo work-in-progress è sempre stato in primo piano a Rotterdam, il Festival (cui l'anno scorso ha dedicato una personale, pur parziale) ha anche presentato due recenti lavori. E fra uno di essi, Nightshots 1, 2 & 3, e Asleep esiste un'intima, profonda relazione. Dwoskin è sempre all'opera prima e un'opera prima è già immediatamente collegata a un pensiero filmico in divenire, non limitata a se stessa. Cinemavita, quello di Dwoskin, fino alla rappresentazione più intima della propria esperienza (da parte di un regista fin dall'adolescenza colpito da una grave forma di poliomielite) con il dolore e il piacere del sesso. Nightshots 1, 2 & 3 è una variazione sul percorso più recente di Dwoskin, quello cui appartengono il cortometraggio Visitors e il lungometraggio Oblivion (che gli spettatori italiani hanno potuto vedere nel 2005 e 2006 al Torino Film Festival). La casa-spazio londinese del regista come set di performances hard e noir, visitato da corpi-fantasmi di donne e da quello intravisto di Dwoskin in un abbraccio sessuale senza fine tra i corpi e la macchina da presa.

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In un altro contesto, ma ugualmente segnato dalla presenza, ancora più esplicita, della morte, si situa I'll be your eyes, you'll be mine realizzato da Stephen Dwoskin e da Keja Ho Kramer, figlia di un altro, e in maniera molto diversa, immenso total filmmaker, Robert Kramer. Il mediometraggio è un diario intimo che ha la forma di un puzzle con cui elaborare una perdita, vivere in presenza di un'assenza, dire la morte e guardarla senza chiudere gli occhi. Film specchio, fin dal titolo, in cui Keja Ho e Dwoskin compiono un'autopsia per immagini, un viaggio nei luoghi abitati e filmati da Kramer, e nelle persone a lui vicine. Film memoria per immagini e voci, a partire da quella fuori campo del filmaker (morto improvvisamente nel 1999 a 60 anni) in alcuni frammenti estratti dalLe registrazioni audio destinate alla figlia. Un dialogo a distanza, montato su un intreccio d'immagini nel tempo, addio definitivo a un corpo (filmato e accarezzato cadavere all'obitorio e nella bara che si chiude, in lampi di insostenibile dolce brakhagiana verità…), sua archiviazione e al tempo stesso sua indelebile memoria che ci osserva e che osserviamo rianimarsi attraverso uno specchio. Appare così un po' troppo sottolineato, di fronte a questi strati, il ricorso al simbolo del cappello di Kramer, indossato e portato in giro dalla figlia in immagini che evocano un'assenza in maniera meno efficace. Mentre altrove, dove la vicinanza con un corpo o con gli oggetti a lungo usati da una persona è totale e libera sensazioni multiple, il film di Keja Ho Kramer e Stephen Dwoskin rimane tra le cose memorabili di Rotterdam di quest'anno e non solo.

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