SAN SEBASTIAN 54 – Mitografie in cerca di verità

La kermesse basca ha preso il via confermando tutte le qualità di un appuntamento in bilico su aree geografiche e culture. In Concorso, tra gli altri, "El camino de San Diego" di Carlos Sorin e "Forever" di Heddy Honigmann

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SAN SEBASTIAN – Fuorigioco e per questo ancor più affascinante: meriterebbe molta più attenzione in Italia un festival grande e importante come quello di San Sebastian, vera e propria kermesse affacciata sull'Atlantico, autentica testa di ponte sul cinema latinomericano, animato da uno spirito cinefilo che, quando funziona come quest'anno, mette insieme tre retrospettive che vanno in integrale dal classico Ernst Lubitsch al contemporaneo Barbet Schroeder, passando per la chiave tematica offerta dal cinema degli "Emigrantes"… 54 edizioni e la forza di trovare ogni anno una prospettiva interessante, nonostante la vicinanza con la Mostra veneziana e, da quest'anno, con la Festa romana, classico convitato di pietra alla mensa festivaliera, che, come si leggeva su El Pais nel giorno d'apertura, ha scippato alla kermesse basca Nicole Kidman e Fur, garantendole quel jet privato che a San Sebastian non potevano permettersi…

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Fatto sta che, stando qui, basta guardare l'Atlantico e le proporzioni cambiano. Certo, l'inaugurazione è stata a rischio d'esser spazzata via dall'Uragano Gordon, che a metà della scorsa settimana ha creato non poco allarme nella protezione civile spagnola e non minori disagi a chi arrivava in aereo. Ma qui il respiro è diverso, questo è un appuntamento che, per quanto portato a confrontarsi con le sue dimensioni da festival di "categoria A", sa e può ancora essere uno sapzio di confronto geografico e culturale: non fosse che per gli "Horizontes Latinos", che ogni anno aprono lo sguardo sulle cinematografie latinoamericane, e per la tensione verso la ricerca di nuovi registi che caratterizza lo spazio aperto di Zabaltegi, senza considerare che il Concorso  è pur sempre una valida alternativa all'imperio d'autore che caratterizza gli altri appuntamenti: qui la necessaria agilità diviene virtù e offre spazio a opere e registi a prescindere dalla loro griffe.

La conferma viene proprio da questi primi giorni: in attesa di mostrare i nuovi lavori di John Boorman, Hirokazu Kore-eda, Tom Di Cillo, Im Sang-soo, Marion Hänsel e Agnieszka Holland, il Concorso di San Sebastian 54 ha infatti giocato almeno tre carte interessanti. Sorvolando sullo spagnolo Vate de mí, opera seconda di Victor Garciá León (che spreca malamente un bel soggetto sospeso sul confronto in dispersione di certezze tra un padre attore e un figlio nullafacente), la competizione ha infatti offerto porzioni di cinema raro e impercettibile, quello che sfiora lo spettatore con una leggerezza che di certo non significa mancanza di tocco. E' il caso del nuovo film dell'argentino Carlos Sorin, frequentatore abituale di San Sebastian, che, dopo Historia minimas e Bombon el perro, insiste nel suo filmare realisticamente affabulatorio, come seguendo sottotraccia la realtà attraverso la capaictà di stare accanto a personaggi autentici, interpretati da attori non professionisti e calati in luoghi e situazioni che nascono dal vero. Le lande argentine ovviamente gli offrono materiale adeguato e la formula del road movie pauperistico torna anche in El camino de San Diego, che pure si porta dalla sterminata Patagonia alla nordica regione di Missiones per raccontare il cammino della speranza di Tati, giovane taglialegna che, come gran parte degli argentini, vive nel culto di Diego Armando Maradona. Siamo infatti nell'aprile 2004, quando l'Argentina si strinse attorno al "Pibe de oro" ricoverato in terapia intensiva a Buenos Aires per un attacco cardiaco, ma Sorin parte dal dato leggendario non tanto del calciatore, quanto del suo piccolo protagonista, un ragazzo semplice che attraversa i boschi con la maglia biancoceleste numero 10 di Maradona. Tati viene presentato infatti nelle parole/testimonianze dei suoi compagni di lavoro: un mito d'ingenuità e passione proiettato nel mito più grande e assoluto del "Pibe de oro", in un travaso di sogni inseguiti e realizzati che dilaga per l'intero paese. Sorin costruisce il racconto per successive rivelazioni, da quando Tati crede di intravvedere nella radice di un albero abbattuto l'effige del suo idolo esultante per un gol, a quando il volto del calciotore amerge dal legno intagliato, a quando la televisione diffonde la notizia del ricovero del calciatore… Con stile disposto a farsi toccare da una verità affabulata con dolcezza, Carlos Sorin ancora una volta riesce a tratteggiare un piccolo mondo in cui il racconto di sé e dei propri sogni minimi è la vera formula su cui si regge la vita autentica dei personaggi che mette in scena. Tati prende dunque la strada di Buenos Aires con la sua scultura in spalla e il topos del viaggio diviene ovviamente lo spazio di un confronto interiore tra questo piccolo portatore di fede e l'intera umanità che, ebbra del mito di Maradona, resta immobile ad attendere notizie in tv.

Ed è curioso vedere a San Sebastian El camino de San Diego dopo aver visto a Venezia The Queen, strano rispecchiamento di opposti immaginari globali che pongono in parallelo la laica santità di un'icona real-popolare come Lady Diana e l'altrettanto laica santità di un uomo-simbolo come Maradona, entrambi innalzati dal popolo a figure profanamente sacrali… Solo che, se Stephen Frears utilizza il transfert tra icona e popolo come punto di fuga per analizzare le dinamiche politiche di una società "alta" come quella britannica, Carlos Sorin lo pone in opera nella prospettiva "bassa" di una fede quasi mistica e necessaria alla verità della vita, propria di uno scenario umano e sociale come quello argentino.


Miti e fedi alternative sono quelle che attraversano del resto anche un altro film del Concorso di San Sebastian, Forever, documentario della olandese Heddy Honigmann girato interamente tra le mura del cimitero parigino di "Père Lachaise", noto per accogliere i sepolcri di personaggi illustri come Proust, Apollinaire, Modigliani, Strauss, Maria Callas, Méliès, Yves Montand, Simone Signoret, Jim Morrison… La mitografia si fa qui tombale, ma non è ovviamente la pietra ad interessare alla documentarista olandese, quanto il confronto con le figure che, occasionalmente o per assidua dedizione, si recano su quelle tombe celebri a rendere omaggio. Ne risulta soprattutto una trasparente ma concreta riflessione sul tema dell'appartenenza, perché alla fine quelle raccolte dalla regista sono quasi tutte testimonianze di persone che vivono a Parigi ma provengono da altri paesi e da altre culture, trovando un elemento di transito culturale per un mondo "nuovo" proprio nelle risonanze artistiche di quei personaggi famosi che, pur non sempre francesi, hanno visto accogliere le loro ossa nel cimitero parigino. Forever risulta dunque una testimonianza significativamente fredda ma di certo non intransitiva, più sottile di quanto la pesantezza delle pietre su cui posa lo sguardo farebbe presupporre, e più concreta di quanto l'apparente semplicità delle testimonianze raccolte vorrebbe dar a vedere.

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