Sentieri Selvaggi intervista Francesco Brandi

La carriera dell’attore attraversa le direttrici di Cinema, Teatro e scrittura drammaturgica. Le sue due ultime apparizioni cinematografiche hanno coinciso con due grandi successi dell’ultima stagione

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Francesco Brandi, classe 1982, si diploma in recitazione al Centro sperimentale di cinematografia di Roma sotto la direzione di Giancarlo Giannini. Nel 2006 ottiene una parte come co-protagonista nella sitcom di Rai 1 Cotti e mangiati. Dello stesso anno è il suo primo ruolo sul grande schermo, nel film diretto da Francesco Amato Ma che ci faccio qui!.

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L’esordio sul palcoscenico arriva l’anno seguente con Dal naso al cielo, spettacolo tratto dalla novella di Luigi Pirandello per la regia di Malcolm McKay. Cinema, Teatro e Televisione rimangono delle costanti nella carriera di Brandi che, nel corso degli anni, collabora con autori del calibro di Nanni Moretti (Habemus Papam, Mia madre, Tre piani, Il sol dell’avvenire), Paolo Virzì (Tutta la vita davanti), Massimo Venier (Generazione 1000 euro, Il grande giorno), Pupi Avati (Un matrimonio) e Andrée Ruth Shammah (Il malato immaginario). Dal 2013, è anche autore teatrale e drammaturgo. Tra i suoi testi ricordiamo Per strada, opera del 2016 diventata uno degli spettacoli cult del Teatro Franco Parenti di Milano, riproposta anche in questa stagione 2022/2023. Per strada inaugura il sodalizio con il regista Raphael Tobia Vogel con il quale Brandi realizza anche Buon anno, ragazzi (2017) e Mutuo soccorso (2021). L’occasione per intervistarlo è il grandissimo successo di due sue collaborazioni nel mondo del cinema: Il grande giorno, l’ultimo film di Aldo, Giovanni e Giacomo per la regia Massimo Venier e Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti.

Hai collaborato a due grandi successi dell’ultima stagione cinematografica italiana: Il grande giorno, di Massimo Venier e Il sol dell’avvenire, di Nanni Moretti. Immagino siano state due esperienze molto diverse tra di loro, con due registi che conosci molto bene. Che rapporto hai con Venier e Moretti e quali sono le differenze di questi due registi nel metodo di lavoro sul set?

Ovviamente sono due miei amici, diciamo uguali. Sono due persone a cui sono molto legato, a cui devo molto sia in termini professionali ma soprattutto in termini umani. Grazie ai loro film ho deciso di far questo mestiere, Tre uomini e una gamba e Aprile sono due film che hanno determinato la mia crescita, quello che avrei voluto fare. Chiaramente sono due registi completamente diversi. Nanni è un maestro con un metodo particolare che quasi nessuno si può permettere, mentre Massimo è un regista che sul set ha una idea molto precisa di quello che deve fare e riesce ad ottenere quello che vuole in un tempo anche limitato. È un grandissimo regista di commedia che riesce a far emergere molto bene alcuni tratti specifici dell’essere umano e riesce a dosare molto bene i toni della commedia ma anche di malinconia, di riflessione. È molto bravo con Aldo, Giovanni e Giacomo perché riesce a togliergli quello che loro sanno fare molto bene a teatro e riesce a calarli in una dimensione reale, questo non è facile, riesce a dare a tutti i suoi attori degli elementi reali e precisi su cui lavorare, sui cui far riflettere, su cui far ridere. Nanni è un grande maestro, totalmente diversa come questione. Io poi come attore con Nanni non ho fatto tanto, ho fatto tanti film ma parti molto piccole non decisive per i film che girava e quindi sono stato più in ascolto con Nanni. Però sono due persone a cui sono molto legato sia artisticamente che umanamente.

Passando ai tuoi lavori per il teatro, questa stagione abbiamo potuto vederti al Teatro Franco Parenti per due spettacoli: Per Strada per la regia di Raphael Tobia Vogel e Il Malato Immaginario per la regia di Andrée Ruth Shammah. Partendo da Per Strada, uno spettacolo nato nel 2016 da una tua drammaturgia, come si è sviluppato il processo di trasposizione del testo dalla pagina al palcoscenico e quali emozioni hai provato?

Per strada l’ho scritto da solo in una cameretta a Roma, dopodiché per una serie di vicissitudini umane, mi sono trasferito a Milano dove non conoscevo nessuno. Sono finito al Franco Parenti a parlare con Andrée Ruth Shammah che mi ha dato l’opportunità di fare Il malato immaginario e da lì ci siamo trovati bene tutti quanti. In seguito, è nata l’idea di provare a realizzare un progetto un po’ più lungo. Avevo questo testo tra le mani e alla prima de Il malato immaginario nel 2015 viene a vedermi questo mio amico con cui avevo lavorato sul set di Pupi Avati (per la mini serie tv Un matrimonio) molti anni prima e con cui avevo legato molto. Dalla sua frequentazione era nata l’idea di Per Strada perché era poi scomparso e non l’avevo più rivisto. All’improvviso mi si è ripalesato davanti. E questo amico era Raphael Tobia Vogel, il figlio di Andrée, ma io non lo sapevo che fosse suo figlio. E da lì è nata l’idea di fare qualcosa assieme. Gli ho fatto leggere il testo di Per Strada. Il testo lo ha colpito molto perché sentiva che c’erano molte cose dentro, come se le avesse scritte lui. E quindi è stata la prima volta per me come scrittore e per Raphael come regista di teatro e come tutte le prime volte è stato indimenticabile in senso positivo. È andato veramente tutto bene. Il clima che c’era attorno a noi, il clima che abbiamo creato noi, il lavoro che abbiamo fatto sul testo perché è rimasto quasi lo stesso però c’erano delle cose in più e altre sono state tagliate. Le cose in più sono state il frutto di un lavoro molto preciso di Raf, di Sferrazza Papa (l’altro attore) e di un assistente alla regia (Gabriele Gattini). Noi 4 abbiamo fatto un lavoro molto bello che ancora ricordo con grande nostalgia perché non siamo più riusciti a ripetere quel tipo di esperienza. Quando con Raf abbiamo scritto altri testi abbiamo faticato molto, non lo abbiamo fatto con la stessa facilità, non so se perché i miei testi erano meno belli rispetto a Per Strada, cosa che mi dicono in molti, o semplicemente perché è difficile ricreare quello che è stato bello. Il lavoro fatto su Per Strada è stato molto importante, raro e quasi miracoloso. Infatti, ha avuto tanto successo, molto pubblico, ripetuto tante volte. Ha avuto tanta vita e si deve a quel lavoro fatto assieme.

Dall’esordio del 2016 alle successive riproposizioni, è cambiato qualcosa nel tuo approccio al testo, sia come drammaturgo sia come attore protagonista?

Dalla prima volta sono cambiate molte cose, le intenzioni delle battute sono sempre le stesse, però tu cambi come essere umano, come attore, acquisisci più consapevolezza. Anche se il testo è tuo e lo reciti tu ogni sera è diversa e ti impone di scoprire nuove cose. Sei anni sono tanti, tutti abbiamo fatto nuove esperienze. E quindi lo spettacolo è cambiato nel senso di una crescita positiva e vitale. Dopodiché, adesso mi sento generazionalmente distante da quello che ho scritto dieci anni fa. Sono diverso da quello che ero prima. Ma questo ha migliorato il mio sforzo di attore perché ero più distante dalla persona che interpretavo e questo mi aiutava a livello attoriale a dire le cose un po’ meglio. Per cui credo che per quanto tutte le edizioni siano state belle, quest’ultima è stata particolarmente bella e riuscita.

Per quanto riguarda Il Malato Immaginario, anch’esso è una riproposizione del celeberrimo spettacolo andato in scena nel 1980. Credi che sia ancora un testo capace di raccontare il presente?

Molière è il più grande di tutti, in tutto quello che ha scritto c’è il dramma, la commedia, l’attualità, la modernità, l’anticipazione dei tempi. È inarrivabile. Il Malato immaginario è un testo che è come se fosse stato scritto ieri, per me il più riuscito. Ed ha seicento anni. Andrée poi sul testo ha fatto un lavoro splendido con Franco Parenti negli anni ’80 e la sua regia trent’anni dopo è ancora attuale e godibile.

Parlando del tuo rapporto da spettatore con Cinema e Teatro, ti capita mai di rivederti sul grande schermo? Se sì, come valuti le tue performance? Ti analizzi spesso?

Io tendo ad evitare di guardarmi perché non amo molto me stesso, sicuramente non mi apprezzo anche se in questi ultimi anni non me ne faccio più un problema. Questo mestiere lo associo ad una sofferenza molto grossa, non mi diverto, non ho tutta la gioia che hanno i miei colleghi nel fare le cose. Soffro tanto e faccio tanta fatica a farle, sempre. Poi alcune cose mi riescono bene, altre meno, come per tutti gli attori del mondo. Se posso evitare di guardarmi evito, poi magari ti invitano all’anteprima… Il teatro mi piace proprio per questo, perché si estingue di sera in sera e nessuno ti rompe i coglioni.

A proposito dell’irripetibilità della performance teatrale, credi che sia una caratteristica che legittimi il Teatro rispetto al Cinema nella rappresentazione della realtà?

Il fatto che ogni sera è una cosa diversa a teatro non è scontato. Devi essere tu che ogni sera fai una cosa diversa. All’interno di un percorso di cose codificate, provate e messe in scena tu devi far si che ogni sera quel percorso sia diverso. Sei tu che devi trovare ogni sera una motivazione diversa. È difficile quando poi devi recitare un testo 50,60,70,100 volte. Magari ti aiuta cambiare città, pubblico. Ma devi essere tu bravo. In particolare, amo per sempre il mio ruolo nel Malato Immaginario perché a ottobre 2022 ho ricevuto una telefonata da mia sorella che mi diceva che mio padre avrebbe avuto tre mesi di vita. Io un’ora dopo dovevo interpretare quel ruolo e in quel momento non avevo molte armi per salvarmi. Ma il teatro è bello per questo, perché devi andare in scena, non gliene frega niente a nessuno di quello che hai dentro. Il fatto di mettermi il costume, truccarmi e andare in scena facendo bene la mia parte mi ha fatto capire che il teatro è un miracolo, perché dà l’opportunità ogni sera, rispetto a quello che vivi, di fare una cosa che è diversa dalla tua vita. Nonostante ci sia dentro nel teatro l’estinzione quotidiana, c’è la resurrezione sul palcoscenico. Anche se hai la febbre a 39 o ti dicono che tuo padre sta per morire in scena hai l’occasione di riguarire. Lo dice sempre Andrée: sfrutta il palco per guarire non per curarti, che è diverso.

Elena Lietti, che abbiamo intervistato qualche mese fa, ci spiegava, circa le differenze per un attore tra Teatro e Cinema, che il primo è l’ambiente più squisitamente congeniale all’attore, mentre il secondo è un ambiente più complicato in cui l’attore è costretto a dare il meglio di sé nello spazio circoscritto di un’inquadratura. Ti trovi d’accordo con questa affermazione?

Sì, sostanzialmente sono d’accordo con Elena. Sono due sforzi diversi. Al cinema ti chiedono uno sforzo di credibilità diverso dal teatro, è tutto più estemporaneo, io ho la sensazione che gli attori al cinema non ci capiscono tanto rispetto a quello che stanno facendo, poi ci sono anche quelli un po’ più consapevoli. Non è il mio caso. Sei solo un ingranaggio, c’è il montaggio, la luce, i tagli. Non puoi capire davvero. È tutto più frammentato ed estemporaneo, reciti un minuto, poi ci sono gli stop. A teatro ci sono le prove, le repliche, hai la possibilità veramente di fare un percorso, anche di grande sofferenza, all’interno di un personaggio. Puoi capirlo, puoi litigarci, puoi dire non ce la farò mai, non sono in grado. È un percorso molto faticoso anche fisicamente perché a volte reciti per un’ora e mezza. È come paragonare i cento metri alla maratona. Il teatro è una partita di calcio in cui puoi decidere di cambiare la storia. Il cinema sono più i calci di rigore. Dentro o fuori.

Per chiudere la nostra chiacchierata, in un’intervista recente raccontavi di come sia mutato il ruolo dell’attore nel panorama cinematografico attuale. In un nuovo ecosistema dell’immagine, credi che l’attore stia perdendo il suo rapporto con il pubblico? Oppure è il pubblico stesso ad aver abbandonato questo rapporto essendo cambiate le sue necessità?

È un discorso complesso. Negli ultimi anni il mestiere dell’attore è cambiato nel suo DNA. Prima l’attore lavorava per far uscire di casa le persone, adesso l’attore lavora per farle restare in casa: abbonamenti, piattaforme, vedere più cose possibili, tutte dentro casa tua. Un po’ come i polli d’allevamento che si replicano perché più persone devono mangiare. Però ogni epoca ha le sue specificità e non ha senso dire era meglio prima o sarà meglio tra qualche anno. Ogni epoca ha bisogno di artisti e personalità. Per me si può anche dire di no. La mia natura è questa, questo è il percorso che voglio fare io, provo a farlo, poi fare l’attore non vuol dire fare successo. Capisco che oggi l’attore è solo quello famoso ma non è così. Poi bisognerebbe aprire una parentesi per coloro che non sono famosi e non hanno potere contrattuale, trovandosi in condizioni vergognose, il contratto nazionale è una vergogna. Tolte le questioni sindacali credo che ogni persona possa dire la sua e fare il suo percorso per raggiungere il proprio obiettivo ed essere felice con il mestiere dell’attore. Io, per esempio, ho capito che voglio fare delle cose belle, che facciano emozionare le persone, che coinvolgano e non le lascino indifferenti. Chi esce dal cinema o dal teatro deve essere un po’ diversa, non meglio o peggio, diversa. L’attore può trovare la sua funzione culturale, sociale, artistica all’interno di una comunità nel momento in cui la personalità dell’attore ha una idea di percorso e cerca di realizzarla.

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