Sick of Myself, di Kristoffer Borgli

Body Horror ai tempi di Instagram che spinge il cinema nordico fuori dalla sua bolla. Lavora con le immagini con intelligenza ma non riesce a venire a patti con un moralismo a tratti ingombrante

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Ancora un personaggio femminile, ancora un’attenzione particolare rivolta a certe nevrosi della contemporaneità. Ma se per La persona peggiore del mondo, di Trier, tutto girava attorno alla crisi esistenziale della generazione millennial qui si parla di sguardi, di socialità, di bulimia dell’attenzione. Perché la protagonista di Sick of Myself, Signe vuole essere il centro di ogni discorso, vuole essere guardata, vuole far costantemente parlare di sé. E non è impresa facile se già il suo ragazzo è un artista concettuale in rapida affermazione, anche lui drogato, tra l’altro, di attenzione.

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Per risolvere lo scontro una volta per tutte, allora, Signe decide di assumere un antidepressivo sperimentale che però, si dice, ha vistosi effetti collaterali. Qualche piccola piaga o lesione vanno bene per essere l’argomento di conversazione delle cene di qui ai prossimi mesi, in fondo. Peccato, però, che la situazione le sfuggirà di mano e le conseguenze saranno imprevedibili.

A ben vedere Sick of Myself è davvero un film fondato sugli sguardi, il nostro, quello di Signe, ma anche quello della diegesi, del film stesso, si potrebbe dire, il cui pregio maggiore è la volontà di affrancarsi da un certo alone artsy, da una certa freddezza nei confronti del racconto che a volte sembra intuirsi nel cinema nordico più recente.

Qui, piuttosto, Borgli pare proprio prendersi gioco delle forme, dei linguaggi di quegli spazi, soprattutto nella prima parte: prende i personaggi, li chiude nei caffè ricercati, nelle case borghesi, nelle gallerie concettuali di Östlund, ma lascia bollire la forma. Lo fa attraverso i dialoghi, tutti in levare, in punta di penna, ma soprattutto non rallenta mai il ritmo. Piuttoso si lancia, senza paura, a scombinare il quadro, a buttarsi sulla strada del body horror più divertito, dentro e fuori il canone, tra Cronenberg, Franju e Almodóvar. Beninteso, i momenti migliori, più spiazzanti, rimangono al centro di improvvise illuminazioni. Piuttosto il corpo di Singe rimane un simulacro tutto sommato statico che evolve, si deforma sempre più come a incamerare le negatività della civiltà dell’immagine (qualcuno, almeno, potrebbe dire), ma forse anche questo sviare dal gore fa parte del gioco.

Perché Sick of Myself, lo si è detto, tira in ballo anche il nostro sguardo, la nostra pulsione scopica, che il film inganna, blocca, devia giocando con i piani temporali, confondendo sempre più le linee del racconto, rendendo Singe protagonista di eventi che sono film mentali, falsi, assurdi what if.

A sopravvivere, di tutto il sistema scandinavo c’è probabilmente il desiderio di trattare la storia di Singe come satira esemplare sulla Instagram culture. E a volte il passo può farsi pesante, soprattutto quando il discorso di Brogli si fa sovrabbondante sembra voler farsi beffe delle maggiori manie del contemporaneo, dell’arte contemporanea, dei guru di autoaiuto. Meglio, piuttosto, quando sposta la sua attenzione sulla sua protagonista, quando la tira in ballo, quasi a volerla purificare dalle sue ossessioni. Così lavora tra le immagini, le nega il primo piano, la riprende spesso a distanza, la attraversa, come se non esistesse. Forse va perfino troppo oltre, la mette a disagio, le dedica attenzione, prevedibilmente, solo quando il suo corpo inizia a deformarsi, le riserva empatia solo nelle digressioni che esistono nella mente di Singe.

Poi Bogli sembra quasi abbandonarla al suo destino, incerto, lui stesso, su quanto, all’apice di tutto, Singe sia ancora prigioniera della sua stessa storia. E si tratta, forse, del passaggio più complesso, ostico, di una satira che, nella sua intelligenza, non sembra liberarsi di un certo moralismo di fondo e che tuttavia non può che apparire coerente con la sua impostazione: dopotutto l’elemento più importante del sistema non è più Singe ma noi, ultimi testimoni (ancora) della sua storia, che potremmo scegliere, o meno, di percorrere la sua stessa strada.

 

Titolo originale: Syk Pike
Regia: Kristoffer Borgli

Interpreti: Kristine Kujath Thorp, Eirik Sæther, Fanny Vaager, Sarah Francesca Brænne, Fredrik Stenberg Ditlev-Simonsen, Steinar Klouman Hallert, Ingrid Vollan, Andrea Braein Hovig, Henrik Mestad, Frida Natland, Guri Hagen Glans, Mathilda Höög
Distribuzione: Wanted Cinema
Durata: 97’
Origine: Norvegia, Svezia, Danimarca, Francia 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
Sending
Il voto dei lettori
2.5 (10 voti)
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