Sidonie au Japon, di Elise Girard

La regista francese ha la capacità di tirar fuori dai luoghi del Giappone tutta la loro densità culturale, evitando anche le trappole dell’eurocentrismo. VENEZIA80. Giornate degli Autori.

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Per Elise Girard il Giappone sembra essere il luogo della stasi, un territorio le cui radici culturali permettono allo straniero/visitatore di lasciarsi indietro anche solo per un istante le sofferenze maturate nel proprio contesto di provenienza, fino ad entrare in contatto con una realtà estranea, quasi ambigua, dove tutto richiama fenomeni noti e conosciuti, ma in cui ogni cosa risulta perlopiù differente. È a partire da questo senso di vertigine provato da chi, come la protagonista, stenta a trovare le coordinate in uno spazio ignoto, che Sidonie au Japon intreccia vissuti e culture, al fine di individuare negli innumerevoli ecosistemi dell’arcipelago nipponico, l’immagine di un paese che ancora vive dei suoi fantasmi, sia collettivi che personali.

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Non è un caso, infatti, che buona parte di Sidonie au Japon sia ambientata proprio a Kyoto, crocevia di tradizioni che continuano ad imperare anche in faccia ai processi di modernizzazione che hanno contraddistinto tutto il dopoguerra nipponico. Per la scrittrice francese Sidonie (Isabelle Huppert) la città del Kansai è l’appiglio ideale da cui iniziare a riscoprire sé stessa, e mettere così in moto un percorso che le consenta di metabolizzare il dolore del lutto per mezzo di quello shock culturale che vive qui il visitatore occidentale. Nel momento in cui arriva in Giappone per promuovere la nuova riedizione del suo primo libro, la donna si sente completamente sfasata: ha perso il marito in un incidente, e da tempo ha abbandonato la scrittura. Ma il tour promozionale organizzato lungo l’arcipelago dal suo editore giapponese, Mizoguchi (Tsuyoshi Ihara) le consente non solo di trovare nell’uomo un’anima compatibile – e quindi lenitiva per le sue crisi – ma di esplorare degli spazi che appaiono innervati di una carica purificatoria. Ideali per chi, come Sidonie, continua ad essere tormentata dai fantasmi del passato.

Ciò che più risalta del film è proprio questa capacità di Girard di eviscerare dai luoghi filmati tutta la loro densità culturale. Qui la cineasta francese interpreta il Giappone come un paese dominato da una spazialità profondamente spettrale, quasi nascondesse sotto la superficie l’accesso al mondo spirituale. È solo prendendo in considerazione l’animismo tipico dello shintoismo, per cui gli spiriti divini (i kami) vivono in ogni cosa, oppure il sentimento di rassegnazione elegiaca del mono no aware su cui sono strutturate tutte le relazioni uomo-natura, che è possibile comprendere lo schema con cui Sidonie au Japon immerge la protagonista in una realtà altamente catartica. Viene così fuori una narrazione che quando ironizza sulle differenze culturali appare certamente approssimativa e monotona. Ma che evita, fino all’ultimo, di cadere nelle trappole dell’eurocentrismo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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Il voto dei lettori
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