Terence Davies. L’ultimo poeta del cinema inglese

La scomparsa del regista di Liverpool ci lascia indifesi, perché con lui il cinema perde il più raffinato cantore delle memorie personali. Lasciandosi dietro un vuoto incolmabile. Il nostro ricordo

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Quando un grande artista se ne va improvvisamente, si è soliti ripercorrere il cammino dei ricordi, le sensazioni che abbiamo vissuto in prima persona nel confrontarci con opere che hanno indissolubilmente segnato il nostro rapporto con il cinema (inglese). Nel caso di Terence Davies, la sua scomparsa ci porta invece a prendere coscienza del significato della sua stessa morte, di cosa veramente comporta non solo per noi spettatori, critici o ammiratori rimasti stregati dal suo cinema, ma per il panorama culturale tout cour. Perché la scomparsa del regista di Liverpool vuol dire soltanto una cosa: che il cinema ha appena perso il suo ultimo, e più sensibile poeta. E non solo per il calore con cui sin dai tempi della “The Terence Davies Trilogy” (1976-1983) ha cantato una città piena di contraddizioni, intrecciandola senza sosta al filo ininterrotto di ricordi ed esperienze personali: ma per come ha interpretato il linguaggio cinematografico quale veicolo ideale del pensiero, il territorio fertile su cui la memoria, la nostalgia e le emozioni che la fondano, hanno assunto una forma molto più in linea con la nebulosità dei codici poetici, piuttosto che con l’immediatezza comunicativa dell’immagine.

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Basti pensare, in questo senso, ai particolari approcci con cui i primi due film di Terence Davies mettono in connessione le crisi infantili del regista con le convenzioni culturali dell’Inghilterra operaia post-bellica: in Voci lontane… sempre presenti (1988) e Il lungo giorno finisce (1992) le vignette di famiglia non sono tenute insieme dalla linearità dell’azione o da mere questioni di causa ed effetto. Per nulla. La continuità temporale, che dovrebbe permettere a sequenze ed eventi di concatenarsi coerentemente tra loro, è qui sostituita da una continuità emotiva. Proprio come accade nella poesia, il cinema di Terence Davies non comunica allo spettatore attraverso la narratività, ma mediante l’evocazione, consentendo di conseguenza al flusso di pensieri che scorre sullo schermo di seguire tempi e ritmi non-lineari, senza mai risultare disorganici o confusi. Il linguaggio filmico, caricato così di logiche poetiche, diventa lo strumento ideale per trasformare le esperienze autobiografiche in puri simboli mentali. Con il ritratto della working-class di Liverpool, che privato finalmente del realismo tipico dei kitchen-sink drama degli anni Cinquanta e Sessanta, si apre alla materia “lirica” del ricordo.

Tutto, per Terence Davies, ha inizio e fine nella sua città natale e nell’orizzonte storico-culturale in cui è calata. Se i personaggi del suo cinema appaiono sempre disconnessi dalla realtà, come se non riuscissero a trovare un senso di appartenenza né all’interno del proprio focolare domestico, né in società, né tanto meno nelle relazioni interpersonali, il motivo è da ricondurre alle restrizioni che la città di Liverpool – e per estensione, l’Inghilterra conservatrice del dopoguerra – hanno esercitato sul regista sin dall’infanzia. Il piccolo Terence, in quanto omosessuale, si sentiva distante da quel mondo: ogni sua “tendenza” non era solamente tacciata come “anomalia”, ma come un affronto all’eteronormatività e al pensiero religioso del periodo, e per questo era punibile dal punto di vista della legge. Ovunque andasse, la sua identità appariva come l’origine di ogni sua trauma: in casa veniva soppressa dal tirannico padre a forza di vessazioni corporali, e nella scuola cattolica – come osserviamo nei tre cortometraggi “autobiografici” Children (1976), Madonna and Child (1980) e Death and Transfiguration (1983) – la situazione non era certamente diversa. L’unica valvola di sfogo di queste pressioni, l’unico luogo in cui Davies poteva sentirsi libero dai vincoli era la sala del cinema. Al punto che Il lungo giorno finisce si chiude proprio su un’immagine del grande schermo, specchio dei sogni di un bambino divenuto finalmente grande.

È per questo che Liverpool, anche quando assente, in realtà la percepiamo in ogni film del regista. Perché la città natale è per Davies non un luogo fisico, ma una funzione simbolica. E come tale si fa veicolo di significati ed esperienze che trascendono i confini urbani, per attraversare orizzonti geograficamente e temporalmente distanti. Le ambientazioni americane di The Neon Bible (1995) e La casa della gioia (2000) non sono infatti dei semplici precursori dell’ultimo periodo “letterario” della sua carriera – inaugurato da The Deep Blue Sea nel 2011 – ma riflettono storie di persone senza una vera direzione, che in continuità con i suoi precedenti (e successivi) personaggi/alter-ego faticano a riconoscersi in un ruolo prestabilito. Al punto che l’approdo recente alle logiche dell’adattamento è anticipato, guarda caso, dall’unico documentario che ha dedicato nel 2008 alla città di Liverpool: Of Time and the City. Un tributo storico-memoriale, in cui il regista sovrappone le trasformazioni post-belliche della metropoli ai ricordi che lo hanno accompagnato lungo tutta la sua infanzia. Fino a “falsificare” la realtà nel pieno del viaggio mnemonico. Proprio come farebbe un poeta.

Dopo Of Time and the City, il cinema di Terence Davies non ha più bisogno di presentarsi come una cattedrale di memorie per raccontare lo stato delle crisi correnti. Eppure ciò che incanta veramente dei suoi ultimi film, è l’ostinazione con cui conservano i temi e le logiche del passato, pur attingendo a storie e racconti che appartengono all’immaginario collettivo. I numerosi romanzi e pièce teatrali che il regista adatta da The Deep Blue Sea fino a Benediction (2021) entrano infatti in comunicazione con le precedenti narrazioni biografiche proprio perché, in fin dei conti, rispecchiano gli stessi intenti comunicativi. Pensiamo alla contadina di Sunset Song (2015), radicata in un contesto familiare in cui si sente soffocare sia per le oppressive condizioni patriarcali della Scozia di inizio Novecento, sia per i comportamenti abusivi di un padre violento e ultracattolico – proprio come in Voci lontane; oppure alla Emily Dickinson di A Quiet Passion, poetessa sopraffina, dalla mente superiore a quella dei suoi colleghi maschili, ma che arriva ad astrarsi da un contesto societario con cui non condivide valori, idee, né modi di essere o esistere.

Alla fine il destino ha voluto che la carriera di Terence Davies si chiudesse con Benediction. Ma a pensarci bene, è anche ironico che l’ultima opera del regista presenti, forse, il personaggio più prossimo ad incarnare un suo alter-ego storico. Siegfried Sassoon è infatti un poeta gay, vittima della mentalità militarista del periodo in cui è cresciuto, e che per questo cerca per una vita intera di metabolizzare la propria omosessualità intrecciando relazioni umane che lo lasciano vuoto, insicuro, e sempre più solo. Un film potentissimo, che testimonia fino all’ultimo la capacità impareggiabile di questo poeta del cinema di rendere personali anche materiali che non appartengono al proprio immaginario biografico. E che improvvisamente ci fa prendere coscienza di quanto la sua scomparsa faccia male. Perché lascia una voragine poetica che nessuno, almeno nel cinema inglese, potrà mai realmente colmare.

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