#TFF37 – L’horror classico in retrospettiva

Qualche considerazione sulla sezione “Si può fare!” dell’ultimo festival piemontese e su una produzione capace di dare forma a un immaginario ben definito, eppure sempre aperto a nuove possibilità

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Strano destino quello dell’horror classico e pre-romeriano: l’evoluzione portata dal “papà” degli zombie lo ha consegnato a un passato che resta un territorio indefinito e come distinto da tutto il resto. Poche le occasioni di confronto e (ri)considerazione, ancor più aggravate da una altrettanto forte carenza di discussione critica avvenuta nei tempi in cui quel filone era d’attualità. Scrive ad esempio Emanuela Martini nel libro “Da Caligari agli zombie”, edito da Il Castoro e che ha accompagnato la retrospettiva “Si può fare!” del 37mo Torino Film Festival: “nel 1980 il processo di analisi e rivalutazione dell’horror era ancora contraddittorio e avviato da poco, soprattutto in Italia, dove al perbenismo educatore della classe colta e alla pruderie borghese che aveva sempre impacciato la critica anglosassone, in particolare inglese, si aggiungeva l’ostinato attaccamento ai canoni dell’estetica e dell’etica del realismo, che avevano a lungo indotto i nostri intellettuali a sospettare di ogni espressione artistica che potesse essere considerata un comodo diversivo oppiaceo alla coscienza di classe”.

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Un genere insomma confinato a margine, mai realmente al centro degli eventi, seppur capace come pochi di cogliere gli umori mutevoli dei tempi e già sorpassato da sé stesso, quando finalmente l’occasione di parlarne era arrivata. Bene dunque la possibilità offerta dalla retrospettiva torinese di cercare una sorta di quadra delle origini, assommando in un unico macro-percorso le direttive offerte dall’espressionismo tedesco, dalla grande stagione Universal, passando poi per le strategie dell’”orrore suggerito” di Val Lewton, fino all’esplosione barocca degli anni Sessanta (tra la sensualità del gotico Hammer, la morbosità di quello italico e la psichedelia di Roger Corman). Tante, forse troppe “scuole”, che in fase di selezione dei titoli hanno naturalmente costretto a lasciare campo quasi esclusivamente ai film più noti, ma comunque importante nell’allineamento compatto di proposte in grado di descrivere l’articolato e ricco percorso del genere.

Il “Si può fare!” del titolo (che richiama naturalmente una celebre battuta di Frankenstein Junior) diventa così una dichiarazione d’intenti rispetto all’esplorazione di un genere coerente seppur composito, affrontato secondo direttrici molteplici. Innanzitutto le radici nobili, fornite tanto dai modelli letterari – i vari Dracula e Frankenstein che, in un ipotetico filo rosso (sangue) uniscono il decennio dei Trenta a quello dei Cinquanta e Sessanta – quanto dalle fioriture artistiche dei primi decenni del Novecento (l’espressionismo tedesco si inserisce appieno nel percorso delle avanguardie). Il tutto senza dimenticare le forme di spettacolarizzazione del bizzarro e della violenza che nell’epoca del pre-cinema assicuravano linfa vitale al popolo affamato di sensazioni forte. Si pensi a tutte le implicazioni che ha un titolo “maledetto” per antonomasia quale Freaks di Tod Browining, che si collega al mondo del circo, delle fiere con i “freakshow”, salvo poi giocare con quelle consapevolezze mostrandoci la “normalità” dei “mostri” e la crudeltà dei “normali”, per poi ribaltare ancora una volta il tutto nel feroce epilogo.

Da lì, si procede lungo le forme di fruizione, che definiscono un interessante legame di continuità fra i decenni: dal circo ai drive-in in cui imperversavano geni dei “gimnick” come il William Castle de Il mostro di sangue (autentica riscoperta festivaliera), alle tematiche del corpo capaci di esteriorizzarsi tanto nelle cicatrici di Frankenstein quanto nei ritratti al femminile alla perenne ricerca della bellezza perduta (il francese Occhi senza volto di Georges Franju). E su tutti una più marcata componente divistica, evidente nell’uso linguisticamente consapevole che i vari Lon Chaney, Bela Lugosi, Boris Karloff, Christoper Lee, Peter Cushing e Vincent Price facevano della propria iconografia attoriale – cui andrebbero affiancate le non meno fondamentali presenze femminili, presenze eteree “che camminano lungo i corridoi” (come diceva Scorsese citando i film di Mario Bava), incarnate a Torino dall’icona di Barbara Steele, vittima, oggetto del desiderio e strega a cavallo fra epoche, autori (Bava, Freda, Corman) classico e new horror (ha poi lavorato anche con David Cronenberg e Joe Dante).

Un’occasione quindi per rivedere la prima età dell’horror letteralmente “in retrospettiva”, per coglierne la straordinaria vitalità e modernità: il passaggio successivo, infatti è comprendere quanto i vari Browning, Tourneur e Wise avessero seminato molto di quello che ancora oggi andiamo a raccogliere. Dai “jumpscare” generatisi dall’effetto bus de Il bacio della pantera, alla prospettive sghembe offerte da spazi come la casa de Gli invasati che ritroviamo oggi nei vari Insidious, alla pietà per i mostri che unisce Jack Arnold e Guillermo del Toro, fino alla problematizzazione sessuale e alla continua ricerca d’identità di antieroi e Creature, tutto l’horror del passato diventa una mappa per comprendere quello attuale e gettare ponti fra epoche di crack economici, guerre mondiali, boom e il presente in cui la paura resta un sentimento forte, unico denominatore in grado di legare gli uomini a un immaginario così ben definito eppure sempre aperto a nuove possibilità.

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