The Caine Mutiny Court-Martial, di William Friedkin

Un “one location movie” di stupefacente economia narrativa. Una grandissima lezione di messa in scena e adattamento cinematografico, ultimo film del grande statunitense. Su Paramount+

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“Non mangio il tuo cibo e non rimango alla tua festa, bevo solo l’ultimo bicchiere e me ne vado”. Nello sguardo disilluso e onesto, lucido e provocatorio, ferito e arrabbiato di Jason Clark/Barney Greenwald riconosciamo tutte quelle istanze contraddittorie a cui William Friedkin ha cercato di dare una forma nella sua magnifica carriera. Il cinema come spazio immaginario che riconfiguri le più radicali pulsioni ed emozioni umane all’interno dei sistema dei generi hollywoodiani, della narrazione forte, quindi delle forti identificazioni spettatoriali. Insomma, vedere sul grande schermo veneziano l’ultimo film in carriera di uno dei più grandi autori americani del XX secolo crea inevitabilmente malinconia, commozione e fortissima ammirazione.

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Friedkin cullava da anni il progetto di adattare The Caine Mutiny Court-Martial – romanzo premio Pulitzer del 1953 di Herman Wouk, già portato sul grande schermo da Edward Dmytryk nel 1954 e sul piccolo schermo da Robert Altman nel 1988 – e le motivazioni sono più che evidenti. La storia è nota: il vice comandante del Caine Stephen Maryk (Jake Lacy) prende il controllo della nave militare durante una tempesta convinto che la manovra disperata del comandante Queeg (Kiefer Sutherland) sia la conseguenza di uno stato mentale alterato. Il secondo ammutinamento nella storia della marina americana diventa quindi il racconto dei testimoni del processo militare dove Maryk deve giustificare le sue azioni.

Friedkin rimane molto fedele al testo di partenza rispetto al celebre film con Humphrey Bogart (che costruiva una solida back story e un arco di trasformazione molto classico per i personaggi principali). Si cambia però l’ambientazione: dalla Seconda guerra mondiale al Golfo persico nel post Guerra in Iraq con attività di sminamento. Ed è un cambio di prospettiva di notevole importanza perché priva il film di un retroterra ideologico condiviso (la lotta al nazismo) riflettendo apertamente sulle zone d’ombra del presente. Friedkin ci chiede di assumere uno sguardo complesso sui fenomeni, di andare oltre le verità procedurali e le prese di posizione ideologiche per giudicare il singolo percorso umano immerso nella storia. Greenwald, infatti, è colui che si impegna per fare “il meglio possibile” in ogni situazione, anche la più sgradevole: “non sono fiero di me ma ho fatto ciò che potevo”. Friedkin, sino all’ultimo fotogramma, ci chiede nuovamente di entrare nel dibattito, di opporre una riflessione critica, di diventare parte del “processo”.

Come? Il volto diventa il paesaggio principale da cui far partire ogni discorso. Questo è un film di testimonianze in primo piano e di emozioni in fuori campo: Kiefer Sutherland è magnifico nell’allontanare immediatamente il confronto con Bogart instillando molta più fragilità esibita al suo personaggio; mentre Jason Clarke e Monica Raymund intavolano un ping pong recitativo di notevolissima tensione etico-emotiva. Infine, Lance Reddick (anche lui, purtroppo, nell’ultimo film in carriera) regala memorabili primi piani d’ascolto carichi di lucida umanità. Insomma, ci troviamo di fronte a una sublime lezione su come fare un adattamento. Un one location movie di stupefacente economia narrativa: da dove inquadrare? Che piano e che punto di vista scegliere? Quando tagliare e in che modo muovere la macchina da presa? Le regole del cinema classico aperte (d)all’umanità dei personaggi con una fluidità registica impareggiabile. Un esempio: lo spazio dell’austera aula di tribunale diventa sconfinato (in grandangolo) oppure soffocante (con i teleobiettivi), assecondando le emozioni in scena e scartando dallo spartito in un unico fondamentale dettaglio (le famose biglie metalliche di Bogart che tornano in mano a Sutherland ma ancor più decontestualizzate e aliene). E ancora, i quadri in profondità di campo con vedute marine in stile settecentesco che mitizzano lo sfondo, accanto alle grandi finestre che schermano i rami degli alberi mossi dal vento alludendo alla vita che preme lì fuori.

Ci siamo allora: quando Barney Greenwald rovina la festa dell’ambiguo scrittore Keefer (con la stessa tensione drammaturgica e con la stessa gioia nel filmare di Festa per il compleanno del caro amico Harold) sembra veramente di arrivare al cuore filosofico della filmografia di William Friedkin. Ossia a quel confine sfumato e sempre sfiorato tra bene e male, natura e cultura, cinema didattico rosselliniano e improvvisa astrazione espressionista. Con il bicchiere di whisky in faccia nel finale che diventa l’ultima provocazione e il commovente regalo d’addio di un vero “maestro”.

All of the films I have made, that I have chosen to make, are all about the thin line between good and evil. And also the thin line that exists in each and every one of us. That’s what my films are about”. William Friedkin

 

Titolo originale: id.
Regia: William Friedkin
Interpreti: Kiefer Sutherland, Jason Clarke, Jake Lacy, Monica Raymund, Lance Reddick, Lewis Pullman, Elizabeth Anweis, Tom Riley, Francois Battiste, Jay Duplass, Gabe Kessler, Gina Garcia-Sharp
Distribuzione: Paramount+
Durata: 108′
Origine: USA, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2
Sending
Il voto dei lettori
1.95 (19 voti)
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