The French Dispatch, di Wes Anderson

Anderson dispone e apre la sua camera verde, per celebrare definitivamente il suo cinema rimasto senza padri. I punti di riferimento hanno perso sostanza e idee. Sono diventati solo oggetti ricordo

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Collezionare le cose, dar loro un nome, catalogarle, disporle in serie secondo criteri estetici o sentimentali, seguendo pure connessioni mnemoniche oppure in libertà assoluta… è un modo di imporre il proprio controllo sul mondo. La tassonomia come dominio progressivo dell’esistente, insomma. Una fatica pressoché illimitata. Ed è, ricordo, un’inclinazione perversa dell’infanzia, quando nominare e incasellare le cose era innanzitutto un approccio, un tentativo di conoscenza. Poi, piano piano, ci si arrende all’inevitabilità dell’ignoto, delle zone inesplorate o inesplorabili, del mistero incomprensibile, ai buchi di memoria, ai pezzi mancanti o ai conti che non tornano. Wes Anderson, invece no. Sembra sempre più concentrato nell’impresa di un catalogo forzato dell’immaginario. E, perciò, la sua rassegna dell’ultimo numero di The French Dispatch, il supplemento periodico dell’Evening Sun, quotidiano di Liberty, Kansas, assomiglia alla mostra di una collezione infinita. Di immagini già viste e parole già lette, tra suggestioni cinematografiche o letture del New Yorker, fumetti, illustrazioni, oggetti da design o da pubblicità spicciola, recuperati nei mercati delle pulci, tra polverosi souvenir e roba vintage. Ma perché questo accumulo? Forse per riempire un vuoto, è la prima risposta che viene in mente. Banale, magari. Ma è un fatto che dietro questi divertimenti, questi teatrini bell’apparecchiati, queste inquadrature troppo piene, troppo frontali e troppo simmetriche, si avverte una sensazione di disagio, se non di paura. Perché l’aria di morte spira da ogni lato.

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Del resto, il film si apre con la dipartita improvvisa di Arthur Howitzer Jr., il Bill Murray che già aveva abbandonato quest’esistenza terrena nei panni oceanografici di Steve Zissou. E la scomparsa del fondatore e direttore del Dispatch segna anche il capitolo conclusivo di una decennale, gloriosa storia di cronache americane sugli usi e costumi europei, sulle digressioni di penne in vacanza su argomenti di politica, cultura generale, arte, gastronomia e quant’altro. Per questo, la redazione di The French Dispatch decide di dare alle stampe un ultimo numero, dedicato al direttore. E Wes Anderson, nel ripercorrere, pezzo dopo pezzo, le pagine di questo commiato, attraversa tutta una serie di stili e forme visive. Ma soprattutto attraversa i cataloghi disposti stanza dopo stanza, set messi in fila e aperti come sale di esposizione, collegati senza soluzione. Come se non ci fosse distanza, come se, nella cadenza del montaggio, nell’assortimento degli oggetti, nella disposizione scenografica, il tempo si condensasse in spazio, in una specie di utopia ubiqua. E tutto va in direzione di un antinaturalismo spinto, se non di un’astrazione vera e propria: frontalità senza profondità, figure in posa in ambienti che denunciano apertamente la loro finzione, azione congelata nel fermoimmagine o che si smaterializza nell’animazione, il manierismo di un bianco e nero da genere classico.

Anderson, con lo zampino della scrittura di Roman Coppola, Hugo Guinness, Jason Schwartzman, rende il suo omaggio alla cultura francese. O meglio alla sua visione della cultura francese, necessariamente di secondo livello, filtrata attraverso le lenti deformanti dell’immaginario. Quindi, un mondo di mon oncle, di fiori e botteghe artigiane, organetti, vicoli, prostitute, ceffi da milieu. E tocca pratiche e momenti cruciali del Novecento, dall’arte contemporanea alla contestazione studentesca. Ma della Storia sembra essere rimasta solo l’apparenza monumentale, la semplice facciata o l’eco, senza la struttura retrostante o il suono originariro. Come se tutto si fosse ridotto a forma leggera, rimontabile e smontabile a piacimento. Una specie di Teatro del Mondo alla Aldo Rossi, ma lasciato sulla carta, sotto forma di disegno.

Alla fine, di tutta questa imponente messinscena della città immaginaria di Ennui-sur-Blasé, in questo clima di noia indifferente, resta proprio la sensazione di una cerimonia funebre. A cui tutti, uno stuolo di volti celebri di cui si fa fatica a tenere il conto, si affrettano a presenziare. Anche solo per una scena, giusto il tempo di mettere la firma sul registro delle pompe funebri. E Wes Anderson dispone e apre la sua camera verde, per celebrare definitivamente il suo cinema rimasto senza padri, orfano. In cui i punti di riferimento hanno perso sostanza e idee, carne, sangue, linfa e pensiero. Sono diventati solo oggetti ricordo, ninnoli, immagini sbiadite, pagine strappate. Potrebbe sembrare bello rispolverarli ogni tanto. Ma anche molto triste.

 

Titolo originale: The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun
Regia: Wes Anderson
Interpreti: Bill Murray, Benicio del Toro, Frances McDormand, Jeffrey Wright, Adrien Brody, Tilda Swinton, Timothée Chalamet, Léa Seydoux, Owen Wilson, Mathieu Amalric, Lyna Khoudri, Elisabeth Moss, Saoirse Ronan Willem Dafoe, Edward Norton, Christoph Waltz
Distribuzione: The Walt Disney Company Italia
Durata: 108′
Origine: USA, 2021

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.59 (83 voti)
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