Una mamma contro G.W. Bush. Intervista a Rabiye Kurnaz e all’avvocato Bernhard Docke
In occasione dell’uscita in sala del film, i protagonisti della vicenda ci hanno raccontato la loro storia, dalle ingiustizie del governo tedesco fino alla detenzione del figlio di Rabiye a Guantánamo
La storia di Rabiye Kurnaz è tanto incredibile quanto drammatica. Nel 2001 il figlio Murat è stato arrestato dagli americani con la falsa accusa di “affiliazione terroristica” e tenuto prigioniero per 5 anni nel carcere cubano di Guantánamo, senza prove né reali sospetti, portando così la madre a lottare strenuamente insieme all’avvocato Bernhard Docke per il ritorno in Germania del ragazzo. Eppure, dopo anni di sofferenze e ingiustizie, nessuno si è scusato o assunto alcuna responsabilità, a partire dagli esponenti dell’allora governo tedesco, colpevoli di aver ostacolato volontariamente il rimpatrio di Murat nonostante fossero coscienti della sua totale innocenza. Abbiamo incontrato i protagonisti della vicenda, arrivati in Italia per promuovere l’uscita nelle sale del loro film Una mamma contro G.W. Bush.
Partiamo proprio dalle responsabilità politiche della vicenda. La vostra storia sta finalmente ottenendo una certa risonanza: il film [diretto da Andreas Dresen] è stato presentato a Berlino, dove ha vinto due premi, e adesso è in arrivo nelle sale di tutta Europa. Eppure, come si legge nell’ultima didascalia presente nei titoli di coda, nessuno ha avuto il coraggio di scusarsi con voi. Ora che il film sta entrando progressivamente nel discorso pubblico, vi aspettate qualche responso da parte dell’attuale governo Scholtz? O perlomeno, da qualche esponente delle precedenti amministrazioni?
Bernhard Docke: Parlare di questo mi suscita grande amarezza e delusione. La Germania, già nel 2002, ha avuto l’opportunità, offerta dagli Stati Uniti, di rimpatriare Murat perché ritenuto dagli stessi americani un “soggetto non pericoloso”. Ma il governo tedesco, a suo tempo, rifiutò questa offerta, con il pretesto che la Repubblica Federale non fosse responsabile delle sorti del ragazzo in quanto possessore di un passaporto turco. Murat a questo punto è rimasto rinchiuso a Guantánamo per altri 4 anni, subendo torture e sevizie nonostante l’acclarata innocenza. Noi perciò abbiamo fatto causa, e abbiamo vinto, consentendo a Murat di ritornare a casa nel 2006 grazie anche all’aiuto della nuova Cancelliera Angela Merkel. E per quanto concerne le responsabilità politiche, nessuno dei precedenti governi si è scusato in alcun modo, né ha riconosciuto le proprie colpe. Ancora ad oggi, non abbiamo ricevuto reazioni sul fronte politico riguardo al film. È un silenzio avvilente, proprio come il ruolo svolto dall’attuale presidente della Repubblica Federale [Scholtz] che, nei panni di Capo Ufficio della Cancelleria, negò a Murat il permesso di ritornare in patria. Un silenzio terrificante, che getta un’ulteriore ombra negativa su tutta la vicenda.
Rabiye Kurnaz: Per il governo tedesco, di fatto, l’unica “colpa” di Murat era quella di avere la cittadinanza turca, benché fosse nato e cresciuto in Germania. Io stessa sono arrivata qui all’età di 12 anni, e ritengo che il nostro paese ci dovesse sostenere in tutti i modi. Ma nessuno si è fatto sentire. Almeno delle scuse, in questa terribile situazione, ritengo di meritarmele. Solo questo chiedo.
La vicenda è naturalmente drammatica, ma il film sceglie di raccontarla con grande ironia e leggerezza, quasi a restituire l’assurdità di una situazione propriamente straordinaria. Partendo allora da tale assunto, credete che il film, attraverso questo particolare approccio umoristico, sia stato in grado di ri-mettere in scena con precisione la quotidianità di quei giorni?
Bernhard Docke: Credo che la chiave umoristica presente nel film sia necessaria non solo per rendere sopportabile la storia a buona parte del pubblico, ma per restituire un ritratto accurato della personalità vitalistica di Rabiye. In cinque anni abbiamo vissuto moltissime cose, così come sono state numerose le situazioni in cui ci siamo ritrovati a ridere per l’assurdità di quello che stavamo vivendo. Senza il senso dell’umorismo, che è stato davvero l’alimento che ci ha aiutato a sopportare questa esperienza, Rabiye non avrebbe potuto portare avanti la sua battaglia, dal momento che aveva anche due figli piccoli di cui occuparsi.
Alla pari di questa chiave umoristica, a rappresentare il cuore del film è certamente il rapporto di amicizia e complicità tra i due protagonisti, da cui filtrano tutte le tematiche socio-politiche di fondo. E in questo senso, nel corso del racconto si viene a creare un’alchimia palpabile tra i due attori [Meltem Kaptan e Alexander Scheer] che danno vita sullo schermo alle vostre “versioni finzionali”. Come si sono approcciati a voi? Entrambi vi hanno coinvolto sin da subito nel loro processo creativo, oppure hanno seguito strade diverse?
Bernhard Docke: Sinceramente, ero molto felice che Dresen avesse scelto Alexander Scheer per interpretarmi. Lo avevo visto in Gundermann (2018) e mi aveva profondamente sorpreso. In realtà ci siamo confrontati molto. Lui mi è venuto a trovare a Brema, e per qualche giorno mi ha seguito anche alle varie udienze, in modo da metabolizzare, e far sua, tutta la mia gestualità in campo lavorativo. E credo che sia stato molto fedele all’originale!
Rabiye Kurnaz: Anche Meltem [Kaptan] è venuta a Brema, e ci siamo ritrovati insieme ad una cena, a cui hanno partecipato anche Bernhard [Docke] e il regista. Per qualche giorno siamo andati in giro in automobile, e qui le ho mostrato come si guida veramente! [ride] Al punto che Meltem era rimasta completamente allibita: erano 14 anni che non guidava! Comunque sono molto contenta che sia stata lei ad interpretarmi, è una persona generosa e divertente. Anche perché non posso negarlo: io ho un senso dell’umorismo assolutamente straordinario!
Bernhard Docke: È vero, Meltem è stata incredibile. Tanto che i figli di Rabiye, nell’assistere alla sua interpretazione, hanno esclamato “quella è nostra madre!”. E forse non c’è complimento più grande per un’attrice.