Une autre idée du monde (The will to see), di Bernard-Henri Lévy e Marc Roussel
Fotografia impietosa delle guerre dimenticate nel mondo ma anche del modo occidentale di non rapportarvisi, il doc di Bernard-Henri Lévy è un buon reportage ma senza geopolitica. RomaFF16
Inimitabile grandeur francese. Caduti anche gli ultimi vessilli del loro imperialismo nella seconda metà del secolo scorso, i transalpini si sono re-inventati come coscienza critica dell’Europa lasciando (giocoforza) alla Germania il ruolo di guida economica/politica dell’Unione e avocando a sé la leadership civile. E lo hanno fatto a volte per imbellettare di retorica interessi strategici – leggi Libia – ed altre perché genuinamente convinti della loro missione ideologica – leggi sempre Libia. Questa contraddizione esplode esemplare nel documentario Une autre idée du monde (The will to see), di Bernard-Henri Lévy e Marc Roussel presentato alla festa del Cinema di Roma con la presenza carismatica del filosofo, saggista, inviato di guerra e regista francese. Nel lungometraggio c’è infatti una bellissima scena che racchiude al suo interno la discrasia intellettuale per cui la giusta denuncia dell’odierna frammentazione tribale in cui è caduto lo Stato nordafricano fa a pugni con l’immagine di repertorio del 2011 che vedeva lo stesso Bernard-Henri Lévy arringare la folla al grido di “Libye- France, Libye-France“.
È proprio il filosofo a montarla così com’è in questo suo ultimo lavoro, come se non fosse nemmeno conscio degli effetti della sua giustapposizione o come se facesse del suo corpo, ancora una volta, il simbolo delle incoerenze occidentali. “Questo caos deve essere raccontato“, dice ad un certo punto la voce narrante di BHL. Certo, ma illustrarne anche la colpevole origine forse avrebbe aiutato.
Une autre idée du monde (The will to see) rinuncia invece per tutta la sua durata a quasi qualsiasi inquadramento geopolitico per farsi (veloce) carrellata sulle guerre dimenticate dall’Occidente. Partendo da una serie di reportage commissionatigli dal direttore di Paris Match e da alcuni inviti espliciti di personaggi politici che ne invocano la presenza per dare notorietà internazionale alle loro tragedie, Bernard-Henri Lévy infrange anche durante gli ultimi due anni i limiti di viaggio imposti dalla pandemia per continuare il suo lavoro di testimone. Ecco allora che lo vediamo recarsi a Mereng, piccolo villaggio della Nigeria, per mostrare le terribili immagini dei cristiani uccisi e bruciati vivi dai terroristi di Boko Haram. Già in questa scena iniziale, esemplare per crudezza e partecipazione emotiva (la storia della ragazza mozzata di un braccio che vede uccidersi davanti gli occhi il marito e i suoi quattro figli) si scorgono i sintomi di quella che potremmo chiamare invadenza spettacolare del reporter che in una breve sequenza sembra compiacersi della minaccia di “machetizzarlo” rivoltagli da un esagitato abitante del luogo.
In più occasioni, sembra infatti di vedere lo stardom della France di Bruno Dumont perché Lévy pone spesso al centro dell’inquadratura la sua figura magnetica rendendosi protagonista addirittura di alcune modifiche diegetiche, atte a vidimare il suo instancabile attivismo. Così possiamo notarlo mentre fa da tramite per un accordo tra il presidente Macron al telefono e un generale curdo assediato dai droni turchi, ammirarlo mentre assiste in posizione ieratica al canto delle soldatesse curde davanti un falò al tramonto e perfino redarguire con un lieve tocco della mano l’incauto soldato ucraino che si era sporto troppo da una trincea del Donbass.
Une autre idée du monde (The will to see) nella sua cifra più innocua ha le fattezze di un collage di World Press Photo in cui immagini potenti – la geografia urbana de “la città più pericolosa del mondo“, Mogadiscio, devastata dal conflitto – dovrebbero essere bastevoli a denunciare con la loro iconicità gli orrori della guerra. Anche la narrazione in prima persona condotta dalla suadente voce del filosofo francese non riesce ad andare oltre le genericità da giornale progressista di grande tiratura, come la presa d’atto dell’abbandono da parte della coalizione internazionale dei peshmerga curdi al loro destino dopo il fondamentale aiuto nella sconfitta dell’Isis. Di fronte alla sincera – ed energica: non si può che rimanere ammaliati dall’elegante ardore della prossemica di BHL – volontà di rendere visibile ad un grande pubblico lo sconsolante quadro sociale dei Paesi belligeranti forse una maggiore incisività a livello di scrittura e di pensiero avrebbe concorso al suo scopo.
Nel ritorno, dopo cinquant’anni dalla sua prima formativa esperienza di lotta, di Lévy in Bangladesh non sono le fanfare, gli onori e gli scambi di poesie con artisti locali a colpirci quanto la disarmante presa d’atto che, di fronte alla presenza spaventosa di una discarica a cielo aperto in cui i ragazzi si immergono impavidi, egli non ricordasse semplicemente “tanta povertà“. Ma è un’altra scena del documentario a dirci quanto l’atteggiamento paternalista dell’occidentale in giacca sporca di fango e senza cravatta ma che mai si lascia contaminare dai costumi del luogo, in queste visite si limiti spesso a replicare i propri schemi mentali avulsi dalla situazione contingente. Quando sull’isola di Lesbo ai 20000 migranti assiepati in un campo che ne può ospitare al massimo 5000 (anche a costo di ripeterci: Lévy non s’interroga sulla mancata accoglienza europea) egli porta in dote mascherine chirurgiche per proteggersi dal Covid, si trova subito a dover ripensare sull’entità del suo dono perché si rende conto che in quelle condizioni igieniche il Coronavirus è un problema non più grave della difterite o di altre malattie causate dalla sporcizia. Ovvero, l’universalismo della ragion pratica occidentale sconfitto ancora una volta dalla ragion pura del particolarismo locale.