VENEZIA 59 – L’allergia del vivere: Far From Heaven, di Todd Haynes,e The Best of Times, di Chang Tso-chi

Omaggio dichiarato al mèlo anni Cinquanta di Douglas Sirk "Far From Heaven" è anche, sottilmente, un remake del secondo film di Todd Haynes, quel "Safe" che fu interpretato nel '95 sempre da Julianne Moore. Mèlo neoclassico, nello stile della "nuova onda" americana, mentre da Taiwan arriva un bel film di un allievo di Hou- Hsiao-Hsien

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Mentre il cielo si fa autunnale su di una Venezia tranquilla e sorniona, la Mostra del cinema, quasi silenziosamente, ci sta regalando sorpendentemente degli splendidi film, che sarebbero senz’altro stati ottimamente inseriti anche dentro il Festival di Barbera, a dimostrazione, forse, che oggi in qualche modo i Festival grandi si fanno “quasi da soli”, scegliendo si ma in un pacchetto ristretto dai tempi  sempre più ridotti per i selezionatori. E così dopo le gemme di “fine agosto inizio settembre”, delle due cineaste DOC, Claire Denis e Kathryn Bigelow, abbiamo avuto due film in concorso emozionanti e sinceri, proprio nella ricca artificiosità della loro costruzione, The Best of Times del taiwanese Chang Tso-chi e Far From Heaven di Todd Haynes, mentre, contemporaneamente abbiamo ammirato le gelide e sconvolgenti lezioni di cinema di Tsukamoto.

The Best of Times è una quasi opera prima, dato che i precedenti lavori di Tso-chi (allievo del grande Hou Hsiao Hsien), non sono stati riconosciuti dall’autore, sempre in conflitto con le produzioni. Apparentemente il film è la storia di due ragazzi, cresciuti nella periferia di Taipei, alle prese con il difficile “lavoro di crescere”: Wei e Jie sono diversi ma con condizioni simili, figli di padri vedovi,  con il primo che lavora come parcheggiatore e si occupa anche della giovane sorella malata di cancro, e l’altro più folle e scatenato, pigro e indolente e facilmente preda della sua impulsività. Il film scorre lento, tra i vicoli di una periferia spoglia e senza speranza, fino a quando i due non iniziano un lavoro di recupero crediti che, complice l’irruenza di Jie e l’incauto regalo di una pistola fattogli dallo zio, non sfocia in tragedia. Qui la trama devia in una folle direzione, con i vicoli che diventano luogo di fuga e di morte per i  due ragazzi, che per  un attimo assaporano la quiete del rifugio lontano, sul mare, al riparo dalle insidie della grande città. Ma The Best of Times, mentre descrive con minuzia di particolari la durezza del vivere, il dolore che affonda nella pelle giovane dei protagonisti, con Wej in particolare tratteggiato nella sua irrequietudine con il mondo e invece con dolcezza e tenerezza solo nei confronti della sorella malata, sa spostare con delicatezza il centro narrativo da una storia di povertà e voglia di riscatto in una sorta di “sinfonia della giovinezza”, con i corpi dei due ragazzi che corrono, soffrono, muoiono e poi rivivono in un sogno/incubo dove l’unica via di scampo sembra essere quella delle acque torbide del fiume della città. Ed è proprio lì dentro che Wei e Jie torneranno a sorridere, come risorti in un acquario (elemento presente in tutto il film), come pesci desiderosi di ritornare a vivere negli spazi sconfinati dell’oceano (omaggio al Coppola di Rumble Fish?…).

E mentre Chang Tso-chi riflette sui “tempi” della vita, assi meglio dei vari cineasti che lo affrontano debolmente nel progetto Ten minutes older (il grandissimo Godard a parte), dall’altra parte dell’Oceano Todd Haynes spinge ancora più a fondo il processo di rilettura del cinema classico americano, che trasforma in u n avera e propria riscrittura nel suo splendido Far For Heaven.

Omaggio dichiarato al mèlo anni cinquanta di Sirk (che viene recuperato in almeno tre film, come Secondo amore, Come le foglie al vento e Lo specchio della vita), Far For Heaven è anche, sottilmente, un remake del secondo film di Todd Haynes, quel Safe che fu interpretato nel ’95 sempre da Julianne Moore. Se Safe era la storia di una tranquilla donna borghese che giorno dopo giorno si scopriva allergica fisicamente alla vita degli anni Novanta, fino a doversi rinchiudere in una sorta di centro di accoglienza/ campana di vetro per “sterillizzarsi”, in Far From Heaven  Cathy Withaker, che pure è il perfetto modello della donna-madre- casalinga  dell’America del dopoguerra, si ritrova improvvisamente a scoprirsi allergica moralmente ed emozionalmente agli anni Cinquanta. E’ sintomatico questo sguardo moderno sull’allergia del vivere di Todd Haynes, che apre il film con una devozione assoluta per il cinema di Sirk, con un dolly tra gli alberi autunnali della tranquilla città di Hartford, che non può non rimandare a Come le foglie al vento. Ma successivamente, Haynes riprende le coordinate di quel cinema fiammeggiante e popolare, svillaneggiato per anni dalla critica di tutto il mondo (ma non dai giovani turchi dei Cahiers), ma che sapeva scardinare il fulco del sistema di vita americano, qul “cuore nero” fatto di villette monofamiliari, giardini ben curati e un’ipocrisia di fondo a mascherarne gli orrori, svelati cinematograficamente negli anni Novanta dal cinema di David Lynch. Haynes riprende un po’ il discorso che facevamo a proposito di Sam Mendes sulla rilettura del cinema classico, sul carpirne la forma ma non lo sguardo, cercando di mostrare il lato nascosto di quel cinema, che era frutto di una società  chiusa in se stessa, tesa alla propria autocelebrazione e paurosa di ogni possibile devianza e contaminazione.

In Far From Heaven la devianza invece, nascosta e sotterranea nei melo di Sirk e Minnelli, viene invece alla luce. Perché il cinema neoclassico è si devoto al suo referente originale, ma anche consapevole che i film non possono essere replicati ma, semmai, vanno “rifatti”. Ed ecco allora che la coppia perfetta, Cathy e Frank Withaker, intervistati come modello familiare anche dalle riviste perbeniste, si scoprirè essere il centro dei desideri repressi di un’intera nazione e cultura. Non interessa a Haynes celebrare il dramma sociale della condizione femminile o degli uomini di colore, ma evidenziarne i conflitti emozionali, la difficoltà di essere autentici in un mondo circostante costruito e fondato sull’inautenticità. E Julianne Moore è straordinaria nei panni di questa Barbie perfetta moglie, madre e padrona di casa, e tutto sembrerebbe scorrere liscio nella sua vita felice finche un giorno non scopre che il marito vive una storia omosessuale e questa rivelazione le sconvolge le fragili fondamenta su cui aveva basato la sua esistenza. E Far From Heaven si dipana tutto dentro i colori pastello, dentro le strade le case e i giardini puliti, dentro questa sorta di infanzia dorata (e illusoria) dell’America, di cui lentamente, pezzo dopo pezzo ne estrapola frammenti di crudeltà nascoste, mondo chiuso  e claustrofobico dove i desideri sono continuamente ricacciati indietro, vittime di un “contesto civile” soffocante nella sua vulnerabile perfezione.

Haynes esplora gli universi che si nascondono dentro un’epoca e dietro dei film che – per motivi ambientali e di censura – erano costretti a celare tante cose nelle pieghe delle loro storie torbide, elementi che invece Haynes può liberamente tirar fuori, modernizzando quelle storie nello sguardo mantenendone intatto però lo spirito di piccoli capolavori sovversivi di un America che, comunque, già stava cambiando radicalmente.

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