VENEZIA 60 – "Liberi" di detestare Ciprì e Maresco: "Il ritorno di Cagliostro" e "Liberi" di Gianluca Maria Tavarelli

Il "cinema della restaurazione" di "Il ritorno di Cagliostro" dei registi palermitani, con una nozionistica riproduzione del B-movie e l'allienamento a quell'estetica del falso, rappresenta l'opposto antitetico di "Liberi "di Tavarelli, un "cinema della fuga" lontano mille miglia dalle zone paludate e sicure del cinema italiano.

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Il silenzio di "Sentieri Selvaggi" su Il ritorno di Cagliostro di Daniele Ciprì e Franco Maresco, proiettato nella sezione "Controcorrente" non è stato casuale ma voluto. Inizialmente anzi si aveva intenzione di ignorare il film non parlandone completamente così come il film di Ciprì e Maresco ignora chi lo guarda. È stata la proiezione di un film come Liberi di Gianluca Maria Tavarelli, opera che al contrario dei registi palermitani espone direttamente la propria fragilità e la presenza comune di un attore, Luigi Maria Burruano, a portarci a cambiare idea.

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Si parte dunque dal film da recuperare, con un atteggiamento storico-filologico che richiama quello esibito da Ciprì e Maresco per raccontare la vicenda della tormentata lavorazione del kolossal Il ritorno di Cagliostro (sequel del Cagliostro di Ratoff del 1949 con Orson Welles). Ad interpretare il ruolo del protagonista viene chiamata la celebrità hollywoodiana Erroll Douglas (Robert Englund, il famoso Freddy Krueger di Nightmare) che precedentemente aveva lavorato al fianco di grandi dive e di registi come Siodmak. A finanziare il film è la Trinacria cinematografica, gestita da Carmelo e Salvatore La Marca, ex-fabbricanti di statue sacre e finanziata anche dal cardinale Vincenzo Sucato, l'onorevole Porcaro e il barone Cammarata. Dopo Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte, il terzo lungometraggio di Ciprì e Maresco è ancora popolato da freaks, da creature volontariamente mostruose, uomini vestiti da donna, i cui i due cineasti continuano a seguire intenzionalmente la loro personale estetica dell'orrido come con le figure della madre del cardinale o del nano narratore. Le figurine senza vita di Segreti di stato di Benvenuti diventano le marionette meccaniche in Il ritorno di Cagliostro, sempre sullo sfondo di una Sicilia tra la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta. Figurine manipolate dai loro burattinai, con preti che ballano il swing, o le sequenze di opere prodotte dalla Trimarcia che vanno dal filone religioso (La vita di Santa Rosalia), al melò alla Matarazzo (O figlio 'ngrato), al musical (La vita è ballo), alla fantascienza (La moglie del marziano), inserite in una narrazione furbescamente più ampia come per allargare la propria fascia di pubblico e in una struttura da film-inchiesta. Ecco allora le testimonianze del critico Gregorio Napoli e dello storico Tatti Sanguineti assieme a quella di Totò Lipari (a sua volta interpretato da Maurizio Laudicina) e della moglie di Douglas che ricreano il vero dal falso. È tutto costruito e fasullo il cinema di Ciprì e Maresco, già programmatico nella sua comicità (la battuta sulle capre di Gregorio Napoli, quella sulla minchia riferita al cinema di Vittorio De Sica) in cui la volgarità stessa non arriva neanche ad essere scurrile per quanto è lavorata e ricercata eppure per una certa classe culturale viene spacciata come forma di intelligenza pura. Quello de Il ritorno di Cagliostro sono tutti personaggi che passano, nel cinema di Ciprì e Maresco, di film in film, stavolta mascherati dallo spirito che include B-movie e Rossellini di cui i due cineasti palermitani recuperano soltanto l'accademico nozionismo ma non si avvicinano mai minimamente al loro spirito, marionette di piccoli sketch che esauriscono nel tempo breve la loro presunta energia comica e si perdono nella durata del lungometraggio da  dove la loro stessa esistenza viene prima negata e poi riproposta come se si trattasse di salme sepolte. Questo di Il ritorno di Cagliostro potrà essere pure "il cinema della morte" o anche "la morte al/del cinema" (la fine della Trimacria come la fine di un'epoca artigianalmente produttiva) ma è anche la volontaria esasperazione di un'estetica del falso dove il loro atteggiamento pericolosamente manipolatorio è diverso negli esiti ma simile nella forma a Lars von Trier. Un cinema che non dà nulla e non risparmia nulla, un vero e proprio "cinema della restaurazione" un'illusione visiva e un esercizio intellettualoide con la quale si sarebbe potuto rispondere con il nulla. C'è più anima, più autentica e coinvolgente volgarità in un'inquadratura dei Vanzina o di Neri Parenti che in tutto il cinema di Ciprì e Maresco.


 


Sempre nella sezione "Controcorrente" è stato proiettato Liberi di Gianluca Maria Tavarelli, ancora un "cinema della fuga" e ancora un cinema orientato verso la continua tensione di rendere filmabile la provvisorietà dei sentimenti. Se Un amore tracciava la storia d'amore dei due protagonisti (Fabrizio Gifuni e Lorenza Indovina) mostrando una lacerante verità da mettere direttamente in gioco, se Portami via e Qui non è il Paradiso è la necessità di inseguire un'utopica quanto provvisoria felicità, Liberi mette a nudo direttamente le emozioni dei suoi personaggi con una fisicità coinvolgente per quanto è opprimente e calda. Il personaggio di Vince (Elio Germano) è fin dall'inizio una figura in fuga dentro la sua automobile diretto per chissà quale destinazione. I luoghi in realtà non si allontanano mai né da lui né dalla sua famiglia, il padre Cenzo (Luigi Maria Burruano) e la madre Anita (Rosa Pianeta). Infatti sia lui sia la madre si spostano da un paesino dell'Abruzzo, Bussi, a Pescara, dopo che Cenzo è stato licenziato da una fabbrica chimica dove aveva lavorato per trent'anni come operaio di primo livello. Una volta trasferitosi a Pescara, Vince trova lavoro in un ristorante e qui incontra Genny (Nicole Grimaudo) che lavora lì come cameriera e assieme alla quale inizierà insieme un percorso di fuga. Fuga dalle proprie paure (Genny che non riesce a prendere l'autobus e il treno per spostarsi), fuga da una stabilizzazione che appare come permanente (il timore di Vince di non riuscire mai a dare una svolta alla propria vita). C'è una semplicità e una forza quasi alla Rohmer in Tavarelli nel dare forma all'attrazione che reciprocamente unisce Genny e Vince. L'arrivo di Vince a Pescara, il suo giro sulla spiaggia prima di vedere la madre sembra avere lo stesso pulsante disorientamento di Pauline in Pauline à la plage. Tavarelli, come Calopresti di La felicità non costa niente, non ha nessun timore di sfiorare il ridicolo, di scottarsi. È troppo complice dei suoi personaggi per sfruttarli anatomicamente come Ciprì e Maresco, è troppo attento a cogliere l'improvvisazione dei loro sguardi – il modo in cui Vince guarda Genny, la sorpresa di Vince quando vede che il padre arriva improvvisamente a casa sua a Pescara – le loro tensioni nascoste, il loro vergognarsi delle persone che amano, le loro gelosie. C'è un momento in cui Genny dice a Vince che secondo lei il ragazzo si è pentito di averla aiutata a superare le proprie paure perché lui pensa alle paure degli altri ma non alle sue. La voce fuori-campo del protagonista mette infatti in gioco le proprie insicurezze, la necessità e l'impossibilità di staccarsi dai propri affetti. C'è un'attrazione del cuore che spesso prevale sulla sua volontà. L'utilizzo della voce fuori-campo non è poi un mezzo, come lo utilizza Virzì, di parlare di se stesso, ma al contrario un'insopprimibile esigenza di parlare e di far parlare gli altri personaggi. Così le traiettorie disordinate di Vince, gli spostamenti nell'ora assolata ora notturna città abruzzese diventano il modo per aprire i personaggi, per mettere a nudo la loro coinvolgente disperazione (i brevi momenti dei licenziamenti e degli scioperi hanno una verità che non possiede Il posto dell'anima di Milani in tutta la sua durata) o per inseguire i loro istinti da dove sembrano fuggire provvisoriamente dalla sceneggiatura scritta. Nella scena in cui Cenzo si arrampica sull'impalcatura di un palazzo in costruzione per poter vedere Anita (che si è legataa un altro uomo) e poi, una volta sceso, si sfoga col figlio, prefigurandogli un futuro uguale al suo, rappresenta il cuore di un "cinema paterno/filiale" e contro un cinema dei padri, che non si vergogna di mostrare l'ultimo ballo tra il padre e la madre, di far urlare "I Will Survive"e di staccarsi con decisione dalle zone paludate del cinema italiano più sicuro. Un cinema che si ama con lo stomaco più che con gli occhi, il film italiano più vero proiettato fino in questo momento a Venezia, fragile e libero.       

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