VENEZIA 67 – “Norvegian Wood”, di Tran Ahn Hung (Concorso)

norvegian wood
Tran Ahn Hung, pur scontando a tratti un peso letterario, racconta i sentimenti profondi come fosse un pittore. Li tratteggia in un’immagine, in una luce, in un colore, li obbliga a piegarsi al percorso delle stagioni, tra alti e bassi, vampate di calore e freddezze glaciali. Qui raccontano i paesaggi e le cose, poi i volti dei tre magnifici protagonisti, i tremori, i silenzi e le musiche. Solo alla fine le parole. E gli accadimenti della Storia rimangono sullo sfondo, come un’eco labile e sottile

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Norvegian Wood, noto anche come Tokyo Blues, è un celebre romanzo di Haruki Murakami. Racconto di formazione e malinconia, di ricordi e fantasmi, di dolori e speranze trattenute. A ritornare indietro con la memoria è Watanabe, giovane studente nel 1967, all’alba della contestazione. Ha lasciato la città natale, per frequentare l’università a Tokyo. Ma il passato non si allontana mai. E’ sempre presente, con tutto il suo carico di tragedie e promesse disattese. Arriva Naoko, la vecchia ragazza del miglior amico di Watanabe, morto suicida a 17 anni. Non c’è campo. Tra la prospettiva di un presente da studente spensierato e donnaiolo e lo spettro del passato, Watanabe non può che scegliere quest’ultimo. Ci hanno raccontato sempre della magia del colpo di fulmine. Ma crediamo più all’amore che sboccia a poco a poco, quasi sempre in silenzio. Un grumo inestricabile e indefinibile di vecchi e nuovi sentimenti, di sofferenze e slanci che si aggrovigliano e si districano senza sosta. Tra Watanabe e Naoko l’amore cresce lentamente. Ma ne fa parte lo spettro doloroso di Kizuki. E’ questo spettro a unirli nel sesso e a separarli nella follia. E intanto si affaccia un’altra ragazza, Midori, che sembra combattere l’ossessione della morte con una forza e una vitalità sconosciute a Naoko. Anche lei è innamorata di Watanabe. Un altro bivio indecifrabile. Cosa sarebbe stato se…? Il rimpianto, ancor più che la nostalgia, sembra la cifra di Norvegian Wood. La sensazione che gran parte della vita sfugga di mano e che i sentimenti siano fuori dalla sfera di controllo. Ogni scelta non sarà un esercizio di libertà, ma un ulteriore limite, che non permetterà di tornare, indietro se non in un futuro remoto. Racconto di un’educazione alla morte e all’amore. Cioè a una realtà impossibile, che poco ha a che fare con l’abitudine e nulla con l’esperienza. Perché le ferite, anche rimarginandosi, non portano certo in dono l’invulnerabilità.

La storia di Murakami trova davvero una seconda casa nelle corde di Tran Ahn Hung (già vincitore del Leone d’oro nel 1995 con Cyclo), che, pur scontando a tratti un peso letterario, racconta i sentimenti profondi come fosse un pittore. Li tratteggia in un’immagine, in una luce, in un colore, li obbliga a piegarsi al percorso delle stagioni, tra alti e bassi, vampate di calore e freddezze glaciali. Un sole pomeridiano che inonda di sbieco una stanza. La pioggia battente dietro i vetri. Il vento che accarezza i capelli e fa impazzire gli alberi. La neve che bagna e arrossisce le guance e rende il respiro vapore fugace. E poi il mare che urla e geme, si gonfia e s’infrange. Qui raccontano i paesaggi e le cose, poi i volti dei tre magnifici protagonisti, i tremori, i silenzi e le musiche. Solo alla fine le parole. E gli accadimenti della Storia rimangono sullo sfondo, come un’eco labile e sottile, che accompagna le storie più intime, personali eppure eterne e immortali come un tragedia greca. Piccole storie che hanno ricevuto il battesimo del tempo.      
 
 
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