Venezia 80 – Casablanca. Incontro con Adriano Valerio

Nato da un suo precedente cortometraggio, il regista racconta di come il suo doc Casablanca si sia sviluppato nel tempo. Notti Veneziane alle Giornate degli Autori di Venezia 2023

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Dopo aver buttato le basi in un corto del 2017, Mon amour mon ami, Adriano Valerio con Casablanca amplia quel progetto, trasformandolo in un lungometraggio inserito come evento alla 20a edizione delle Giornate degli Autori di Venezia 80. E proprio lui ci racconta questa evoluzione, i sei lunghi anni passati a raccogliere materiale e poi confluiti in questa versione definitiva. “L’idea è nata in un bar di Gubbio dove ho incontrato Fouad mentre presentavo il mio primo lungometraggio (Banat – Il viaggio). Abbiamo cominciato molto presto a girare, ed io una volta finito il corto pensavo di fermarmi lì. Per due ragioni: mi sembrava raccontasse in maniera abbastanza coerente quel momento e poi perché speravo che all’interno della loro comunità il film avrebbe permesso alle persone di conoscere meglio Fouad e Daniela, sui quali grava uno sguardo molto diffidente e antipatico. In realtà il risultato è stato esattamente l’opposto: le foto condivise di loro due sul tappeto rosso sono state fonte di scherno e di insulti, razzisti e violenti. Così il proposito è naufragato. Poi siamo rimasti legati ed in qualche maniera il loro desiderio di raccontare sia questa storia, sia gli snodi delle loro vite che si prestavano agli snodi drammaturgici, mi hanno convinto a continuare”.

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Se qualcosa è cambiato dal punto di vista narrativo, lo stesso non si può dire del dispositivo che è rimasto immutato, una parte strettamente documentaria, di pedinamento e di interviste, ed una parte in cui delle scene realmente accadute nelle loro vite sono state reinterpretate. La differenza si rintraccia piuttosto nell’uso maggiore della voce over nel cortometraggio, per concentrare più informazioni in uno spazio più ridotto. “Pur vivendo in Francia dove hanno questa ossessione, non mi interessa definire cosa è il documentario e cosa è finzione, penso che sia importante che un regista sia onesto rispetto al suo dispositivo. In questo lavoro non c’è mai stata una sceneggiatura. Dopo il cortometraggio c’è stato un trattamento. Nelle tre sessioni di riprese che ho avuto a disposizione, una nel 2016, una nel 2019 tra Gubbio e Parigi e l’ultima a Casablanca, c’erano dei punti che sapevo che volevo toccare, ma proprio per l’uso di questo dispositivo misto seguivo il flusso di vite e di situazioni. Loro due sono oratori molto diversi ma straordinari. Lanciavo spesso un soggetto e loro andavano avanti per ore, ed io portavo a riportarli nella direzione che poteva servire per il film, la scrittura del film si è fatta moltissimo in montaggio. Quando Fouad era a Casablanca ho capito che poteva esserci un arco narrativo completo”.

La malattia di lui, l’alcolismo di lei, i problemi legati all’immigrazione sono tutti aspetti che emergono incontrando i due protagonisti del film, anche se la motivazione principale del regista era raccontare una storia d’amore. “Vi confesso che ad oggi non so esattamente quanto la loro storia sia definibile secondo i canoni di una storia d’amore. Non mi interessa se si sono baciati o se hanno fatto l’amore. C’è una misericordia. Entrambi mi hanno raccontato fin dal primo giorno che li ho visti che si sono salvati la vita l’un l’altro, in interviste separate. Con tutte le barriere che ci sono, dei loro problemi e delle loro storie, quando si separano poi si ritrovano”. In realtà la considerazione è anche politica, queste due persone hanno di fatto bisogno, anche tristemente, uno dell’altra per sopravvivere. Possiamo definirla una famiglia atipica o una coppia strana. Sono due essere umani che vengono da due posti improbabili, lontanissimi, e si ritrovano a Gubbio, vivono insieme per 3 anni e si salvano la vita. Si rendono conto che insieme è più facile resistere alle angherie che li circonda. “La cosa difficile del montaggio è stata creare un equilibrio narrativo e dei punti sufficientemente forti a sostenere la tensione per tutta la durata del film. Le scene che implicavano un loro scambio dialettico presentavano un’unica difficoltà, quella di non renderle troppo lunghe. Altrimenti sarebbero potute durare il doppio e restare ugualmente interessanti, poi però rischi di perdere il pubblico”.
Lei viene da una famiglia dell’alta borghesia, parla in modo abbastanza edulcorato e sostenuto, e recita. Lui ha un italiano molto povero, ma è molto preciso. Per Daniela c’è stato un problema di percezione su cosa fosse documentario e cosa fosse finzione, ha pensato di poter avere una carriera da attrice. È stato un problema farle capire col tempo, a livello professionale ed umano, che quello che facevamo era un documentario, e richiedeva la loro capacità di reinterpretare delle situazioni, ma che questo non li definiva in maniere naturale come soggetti, perché interpretavano sempre loro stessi. Con Fouad, con il suo essere minimalista nei gesti e nella presenza, è stato tutto molto facile”.

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